Ero una iperattiva. Dentro una giornata ci facevo stare lo sport, i pendolarismi, le colazioni con persone interessanti, il lavoro, le attività con le figlie,
il corso di ballo, la preparazione della cena e pure la lettura di un libro. Ho sempre trovato spazio per tutto, anche per annoiarmi. Oggi che molte di quelle attività si sono dissolte dentro mattine e pomeriggi dilatati, vedo le mie giornate fluire senza che io ne abbia portato a termine neppure la metà. So fare liste, organizzare il tempo, mio e degli altri. Eppure, a gestire questo tempo, non ero pronta.
Leggere le vostre lettere ne occupa gran parte. Daniela Ghilardi, mentre faceva colazione, nel silenzio di un sabato mattina rotto solo dalle sirene delle ambulanze, rileggeva l’editoriale in cui invitavo a coltivare il coraggio. «Il coraggio» mi scrive «qui a Bergamo ci ha chiamato a gran voce e ci ha detto con scherno: “Vediamo se sapete di cosa parlate quando mi nominate”. Il coraggio di guardarsi negli occhi, sui volti ormai perennemente coperti dalle mascherine, di andare al lavoro perché il senso del dovere è tuo, è dentro di te, è parte di questa terra coraggiosa. È negli occhi dei nostri dottori, delle nostre infermiere, dei tanti volontari della protezione civile e anche di quelli come me che lavorano nei supermercati al servizio del pubblico. È il coraggio di dire a tuo figlio “andrà tutto bene” perché non è giusto che a 14 anni i suoi sogni si possano colorare di nero da un giorno all’altro. È il coraggio di aver pianto dopo aver visto i camion dell’esercito portare via le bare dei nostri cari di notte, nella speranza che il nostro cuore non li vedesse».
Cristina Schillaci, moglie di un anestesista piemontese, mi invita ad affacciarmi in stanze dove non ho mai messo piede. «Dietro questo “state a casa” diventato il motto degli onesti e responsabili cittadini» mi scrive «ci sono donne per cui la casa è una prigione, all’interno vi subiscono abusi e maltrattamenti. Ci sono bambini che non possiedono una stanza per sé, uno spazio all’aperto e un adulto che gli si dedica con responsabilità e rispetto».
Ecco cos’è che congela il mio tempo. La percezione irrazionale di averlo guadagnato a scapito di qualcun altro. La presa d’atto che questa epidemia abbia radicalizzato le differenze sociali in modo spaventoso, dividendo il mondo in chi può godersi il tempo, riscoprirlo, e chi invece subisce ogni ora, ogni minuto. È un tempo che non sento mio. Semplicemente. E mi sembra un furto dedicarlo a me stessa. Ieri, al telefono con un uomo saggio e più maturo di me, abbiamo convenuto che forse era quello il modo migliore per spenderlo. Tre telefonate al giorno. A chi è solo, a chi è spaventato, a chi non ha balconi ma solo finestre, a chi è recluso con qualcuno che non ama, a chi non ha progetti. O a chi, come me, sta cercando di dare un senso a questo tempo.