Per Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, «si considerano immortali». Per i titoli da prima pagina sono a dir poco irresponsabili (La movida se ne infischia del coronavirus a Foggia). Un sondaggio dell’istituto Noto dice che il 65% dei giovani bolognesi non segue le prescrizioni del governo in merito all’emergenza coronavirus. E a nulla vale ribadire che se l’età media dei decessi è di 81 anni, circa il 5% dei malati ha meno di 30 anni. L’hashtag #iorestoacasa fatica a entrare nella testa dei nostri figli grandi. Bombardati da messaggi contraddittori, si sono prima visti chiudere scuole e università, poi i cinema, i musei, i parchi, fino al diktat definitivo: «Non uscite o contagerete i vostri nonni».
Sul tema lo psicologo Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, docente all’università Bicocca e padre di 2 figli, ha molto da dire: ha appena dato alle stampe il saggio Cosa serve ai nostri ragazzi (Utet, vedi box sotto), in cui cerca di spiegare i nuovi adolescenti a genitori, insegnanti, adulti. Compito arduo, ma tempestivo, considerando il momento storico che vede chiuse in casa 24 ore su 24 almeno 3 generazioni insieme.
Professore, è d’accordo con la tesi della “gioventù movida” indifferente ai pericoli del virus?
«Mettiamola così: 2 domeniche fa, prima della stretta del governo, camminavo davanti al parco di City Life, quello dei nuovi grattacieli a Milano. Sa quanti gruppi di adolescenti ho visto? Pochissimi. Per il resto erano famiglie, bambini e anziani. Così come non mi pare che tra gli assalti ai “treni del sud” o ai supermercati ci fossero solo teenager. Questo per spiegare che è un momento confuso per tutti. I messaggi del mondo adulto, da quelli medico-scientifici a quelli politici, sono stati contraddittori. A casa i discorsi sono carichi di angoscia. Imputare ai ragazzi la colpa di una maggior diffusione del virus, senza dati epidemiologici precisi, mi sembra esagerato».
Però è innegabile che molti non abbiano seguito la prescrizione di rimanere a casa ed evitare assembramenti
«Ogni comportamento a rischio, in adolescenza, è un modo per mettere alla prova se stessi. Mentre l’infanzia è l’età dell’onnipotenza, con la maturità ci si confronta con un corpo che cambia e che si avverte non più invincibile. Tutti i riti iniziatici sono una sfida con questa consapevolezza. Chiedere all’improvviso a un adolescente di oggi – cresciuto nell’individualismo e nel culto del sé – di aprirsi all’altro è fantascienza: è un percorso che bisogna iniziare da piccoli, e che non è sostenuto da una società che esalta la popolarità. Da anni sostengo che abbiamo costituito la più significativa emergenza educativa degli ultimi tempi: una precocizzazione e adultizzazione del bambino, a cui facciamo seguire una infantilizzazione dell’adolescente».
Nemmeno il rischio di contagiare gli altri – dai genitori ai nonni – sembra entrare nel loro perimetro di possibilità
«Se a questa età si preme sulla paura e sull’angoscia, si ottiene soltanto l’effetto contrario. Anzi, è proprio toccando figure familiari così importanti che si crea ancora di più un messaggio incomprensibile: mai una generazione è stata più affettivamente legata ai nonni di questa. Molti ragazzi si tatuano persini la loro data di morte, quando avviene, tanto li reputano importanti. Non è addossando loro una colpa che li si responsabilizza».
E come si fa, allora, a convicerli del pericolo che corrono e che fanno correre?
«Non infantilizzando i figli, ma puntando sulla responsabilità reciproca, su un patto tra generazioni in cui ognuno in questo momento di emergenza viene chiamato a fare la propria parte. Limitando le angosce e facendo capire loro che diciamo la verità, che sappiamo che comportandoci con solidarietà ne usciremo. Dobbiamo essere autorevoli ai loro occhi, ma l’autorevolezza si conquista solo con la credibilità. Anche assumendoci le nostre “colpe”: abbiamo consegnato loro un mondo che non darà un lavoro sicuro, un Pianeta ammalato, ora un virus. Mi stupisce sempre come questa generazione sia così pacifista, con il fardello che si ritrova in eredità. A confronto, c’erano meno motivi per le rivolte del ’68 e del ’77. Loro si limitano ad aderire a movimenti ecologisti come quello di Greta, dove però hanno il sostegno degli adulti. Non c’è vera ribellione».
Li davamo tutti per malati di social, invece è la socialità a cui non riescono a rinunciare?
«Ma i giovani sono i massimi esperti di relazioni, soprattutto virtuali: sono stati cresciuti da madri che gesticono dall’ufficio ogni loro movimento tramite WhatsApp. Sono stati bambini confinati in casa per timore di lasciarli soli ai giardini e ragazzi a cui poi, verso i 12-14 anni, si è detto: “Insomma non esci mai dalla tua camera!”. E ora che erano finalmente fuori, si ritrovano perimetrati… La contraddizione non è certo solo una loro prerogativa. Approfittiamo per capire chi sono i figli che abbiamo in casa, come vivono online, coinvogliamoli in modelli cooptativi e non di controllo. Anche la scuola, ora che si è virtualizzata, dovrebbe puntare su tematiche affettive. Al posto di riempirli di compiti, perché non chiedere ai ragazzi: come state? Parlate delle vostre angosce».
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La famiglia, i rapporti con i coetanei, la scuola: com’è la vita di un bambino del 2020 che “rinasce” con l’adolescenza? Cresciuto precocissimo, è un esperto di relazioni virtuali che madri e padri faticano a comprendere, pur avendone gettato “le basi” fin dall’infanzia. Nel saggio Cosa serve ai nostri ragazzi (Utet), lo psicologo Matteo Lancini cerca di spiegare ad adulti, genitori, educatori chi sono i ragazzi di oggi.