Questa è la storia di un’emergenza nell’emergenza. La possiamo scoprire guardandoci intorno, specie nelle grandi città, oppure interrogando i testimoni. C’è lo smarrimento della troupe della trasmissione Rai Linea Blu davanti ai guanti in lattice che riaffiorano su un lembo di mare placido e limpido dell’isola di Capri. Erano impegnati nelle prime immersioni per la nuova stagione del programma. Cercavano il blu e sono inciampati negli intrusi. E poi ci sono i numeri. Il Mediterraneo ogni anno deve fare i conti con 570.000 tonnellate di plastica che finiscono nelle sue acque: è come se 33.800 bottigliette venissero gettate in mare ogni minuto, dice il Wwf.
Eccola qui, l’emergenza nell’emergenza. La pandemia ha ribaltato esistenze, ritmi e priorità delle nostre vite. E anche la tutela dell’ambiente rischia di andare a farsi benedire. Sin dai primi giorni delle nostre quarantene, e in maniera ancora più evidente con l’avvio della fase 2, abbiamo iniziato a liberarci senza troppa cura di mascherine, guanti usa e getta, visiere. Strade, parchi e marciapiedi sono diventati il ricettacolo più visibile dei dispositivi di protezione che utilizziamo ogni giorno. Ma, come accade sempre per i rifiuti plastici, c’è una vittima più grave e meno vicina ai nostri occhi: il mare.
Cosa succederà al Mediterraneo, che già versava in uno stato di salute precario? Anche lui finirà in terapia intensiva per colpa del Covid-19?
Ogni mese finiscono in mare 40 tonnellate di plastica in più
«Abbiamo lottato anni per superare lo smaltimento indiscriminato delle plastiche monouso. Proprio adesso che si cominciava a vedere qualche risultato, una nuova emergenza è dietro l’angolo». Donatella Bianchi, autrice e conduttrice di Linea Blu, oltre che pragmatica presidente di Wwf Italia, tra le 5 donne chiamate dal premier Giuseppe Conte a integrare la task force di esperti per la fase 2, sa bene che ora i fronti aperti sono molti. «Dovremmo puntare da subito sull’installazione di raccoglitori ecologici nei parchi, nelle aree di sosta e vicino ai supermercati». Proprio come già accade nelle corsie degli ospedali.
«Occorre dare visibilità al problema, percepire questi dispositivi come “il nuovo intruso”» continua Bianchi. «In caso contrario rischiamo di assuefarci al fenomeno, diventando ancora più impotenti perché questi dispositivi sono necessari: insomma, non si tratta più di abolire le bottigliette di plastica a favore delle borracce ecologiche». Le prime stime non sono incoraggianti: «Se solo l’1% delle mascherine finisse in natura, ogni mese avremmo 10 milioni di dispositivi esausti in circolo, pari a 40 tonnellate di plastica in più» conclude Bianchi.
E ci attende un’ulteriore impennata nei consumi di questi dispositivi. Il Politecnico di Torino ha analizzato il fabbisogno nazionale, a partire dalle riaperture parziali dello scorso 4 maggio: da qui a fine emergenza consumeremo almeno 953 milioni di mascherine al mese, 35 milioni al giorno. «Si tratta di uno studio inviato ai decisori politici per promuovere il concetto #ognunoproteggetutti» spiega l’ingegnere biomedico Alice Ravizza, membro del gruppo di studio dell’ateneo. «Stiamo provando a concentrarci sulle soluzioni, lavorando per proporre mascherine riciclabili, a minore impatto ambientale».
Servono protezioni anti-coronavirus riutilizzabili
La progressiva riduzione dei dispositivi attuali a favore di quelli biodegradabili e riciclabili non è una strada semplice da percorrere, tra costi più alti e problemi di produzione e brevettabilità. «Le comuni mascherine usa e getta sono realizzate con diversi polimeri e materiali, questo purtroppo rende impossibile il loro riciclo integrale» conferma Porzia Maiorano, professore associato di Ecologia all’università di Bari e componente del consiglio scientifico dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Per fortuna possiamo contare su 2 elementi importanti: la flessibilità delle aziende italiane, in prima linea su questo fronte (vedi più in basso), e l’unanimità della comunità scientifica sul fatto che questa sia l’unica soluzione davvero efficace per ridurre l’inquinamento da guanti e mascherine nel lungo periodo.
Sul tema si sono allineati epidemiologi, virologi, ingegneri e movimenti ambientalisti, dal Wwf a Marevivo, sino alla Fondazione Univerde che ha promosso su Change.org la petizione #ripartiamosenza monouso. Il presidente Alfonso Pecoraro Scanio ha chiesto al governo di«orientare scelte e investimenti nella ricerca di materiali biodegradabili, riutilizzabili e riciclabili» per i Dpi, i dispositivi di protezione individuali che servono a difenderci dal coronavirus. «La prima speranza è che si instauri una cultura della raccolta: nei luoghi dove più persone utilizzano le mascherine, queste andrebbero chiuse in un sacchetto e lì tenute per qualche giorno prima di smaltirle tutte insieme nell’indifferenziato» spiega Guido Saracco, rettore del Politecnico di Torino. «E ci sono allo studio forme di rigenerazione parziale, come la mascherina che mantiene lacci e parte elastica e richiede il solo cambio della carta».
La legge “salva-mare” è ferma in Parlamento
Il resto, aggiunge Maiorano dell’università di Bari, «dovranno farlo campagne mirate su questo tema». E l’azione politica, che tuttavia continua a latitare. «Con altre 16 associazioni abbiamo chiesto al premier Conte di coinvolgerci di più, mettendo ai primi posti l’ambiente e il sociale in un’ottica di economia circolare» spiega Rosalba Giugni, presidente di Marevivo. «Da 1 anno è arenata al Senato la legge “salva-mare”, che consentirebbe ai pescatori di conferire direttamente a terra e ad aziende specializzate i rifiuti che recuperano al largo, senza doverne sostenere i costi di smaltimento.
Oggi, per paura di essere multati, raccolgono la plastica finita nelle reti insieme ai pesci e la ributtano in acqua». In caso contrario non ci resterà che affogare in quella che l’oceanografo Charles Moore ha definito “zuppa di mare” e che adesso a sacchetti, polistirolo, spazzolini e chincaglieria aggiunge un nuovo e disgustoso ingrediente: «Quei milioni di guanti e mascherine non riciclabili ci impongono di agire subito» chiosa Nicolò Carnimeo, docente di Diritto marittimo all’università di Bari e autore di Com’è profondo il mare (Chiarelettere). «C’è un limite alla plastica che un ambiente, e gli animali che ne fanno parte, possono tollerare. E noi lo stavamo sforando già prima di questa nuova emergenza. Non si può più aspettare». Anche questa storia, come tutte le altre, ha una morale: nessuno si salva da solo. Neanche gli oceani.
Soluzioni made in italy
Da Bergamask prodotta in Lombardia, per giunta in una delle aree più ferite dal virus, a iMask inventata da una start up siciliana. Si stanno studiando soluzioni innovative per i Dpi, i dispositivi di protezione individuali, in grado di dare una mano sia all’ambiente sia al portafoglio. Bergamask è stata messa a punto nei capannoni della Stil Gomma di Valle Calepio, in provincia di Bergamo: è un dispositivo in silicone medicale antibatterico che si può sterilizzare nel microonde o in acqua bollente. I primi stock prodotti sono stati già inviati a Protezione civile e forze dell’ordine, ma presto saranno acquistabili in farmacia e – con un tempo d’attesa medio di 15 giorni – anche dai privati.
L’altra idea green e low cost contro il Covid-19 è iMask, una maschera con filtro FFP3 lavabile e sterilizzabile, in vendita online e prodotta dall’omonima start-up con sede a Siracusa. «iMask è riciclabile all’infinito grazie al cambio del filtro» spiega Salvatore Cobuzio, co-founder e ceo di iMask. «In più, è trasparente: non copre il volto rendendoci, come avviene ora, tutti irriconoscibili».