Che smog e polveri sottili non facciano bene alla salute è cosa nota, come anche il fatto che proprio nelle aree maggiormente inquinate ci siano più casi di malattie respiratorie. Da tempo gli studi si sono concentrati, invece, sul nesso tra la diffusione di virus e la presenza di polveri sottili. A queste indagini si è aggiunta ora una ricerca italiana che ha preso in esame la diffusione del coronavirus nel nostro Paese. Condotta dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e dalle università di Bari e Bologna, mostra la concomitanza tra lo scoppio dei contagi in Pianura Padana, e in Lombardia in particolare, e gli sforamenti nei livelli di polveri sottili consentiti. La conclusione, secondo gli esperti, è che il particolato in atmosfera ha accelerato la diffusione del COVID-19, diventando «un’autostrada del contagio».
Inquinamento e virus
La premessa è che ci sono diversi studi che mostrano come il particolato atmosferico (le famigerate Pm, polveri sottili) svolga il ruolo di carrier, cioè di vettore, nel trasporto di numerosi contaminanti chimici e biologici, compresi agenti patogeni come i virus.
«I virus si “attaccano” con un processo di coagulazione al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane. Queste possono essere trasportate anche per lunghe distanze, che possono dipendere da variabili come l’umidità, il vento o la temperatura. Così diffondono i virus, esattamente come è dimostrato che accade con l’influenza» spiega Alessandro Miani, presidente Sima. A provarlo sono indagini condotte anche in passato, ad esempio sulla Sars, sindrome respiratoria molto simile a quella causata dal COVID-19, avvenuta nel 2002-2003 in Cina, un paese dall’elevato inquinamento atmosferico.
Partendo dalla considerazione che l’area più colpita dal coronavirus è quella della Pianura Padana, in particolare Lombardia e Veneto, gli esperti hanno analizzato le rilevazioni delle centraline dell’Arpa – le Agenzie regionali per la protezione ambientale – su tutto il territorio nazionale, mettendole poi in relazione ai numeri dei contagi da COVID-19 forniti dalla Protezione Civile.
Anche il coronavirus “facilitato” dallo smog?
«Abbiamo osservato una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 registrati nel periodo 10 febbraio-29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo, dunque in un lasso di tempo compatibile con quello dei 14 giorni di incubazione del virus» spiega Miani. «Il risultato sembra indicare una relazione diretta tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da Pm10 dei territori, coerentemente con quanto ormai ben descritto dalla più recente letteratura scientifica per altre infezioni virali» prosegue l’esperto.
La concentrazione dei maggiori focolai si è registrata, infatti, proprio in pianura Padana, in un lasso di tempo in cui «ci sono stati tre importanti periodi di sforamenti delle concentrazioni di Pm10 ben oltre i limiti. Questo ci porta a pensare che, oltre che carrier, il particolato atmosferico possa fare anche da boost, ossia da acceleratore nella diffusione del coronavirus» spiega il presidente Sima.
Il caso italiano: nord e sud a confronto
Eppure l’inquinamento non è un problema solo del nord Italia. «Premesso che il nostro è il primo Paese in Europa per decessi a causa dell’inquinamento (ben 76mila vittime all’anno), vanno considerati alcuni fattori. Ad esempio, del SARS-CoV-2 il coronavius con cui abbiamo a che fare ora si conosce ancora poco, ma fa parte di una famiglia di virus che, in generale sono sensibili alle temperature. Si disattivano con facilità in caso di aumento delle temperature e vivono meglio in condizioni di basse temperature, come possono essere quelle più tipiche del nord Italia in inverno» spiega Miani.
Inquinamento e malattie respiratorie
Un’altra possibile spiegazione riguarda il fatto che lo smog favorisce in genere le malattie respiratorie: «Laddove c’è maggiore inquinamento ci sono anche più fragilità a livello individuale, che portano a un maggior numero di patologie acute o croniche delle vie respiratorie. In queste condizioni qualunque patogeno potrebbe attecchire con maggiore facilità» spiega il presidente della Sima. I dati raccolti finora in Italia confermano che il contagio da coronavirus ha conseguenze maggiori in soggetti con patologie respiratorie pregresse.
Secondo gli esperti biologi, inoltre, va anche considerato che il particolato e le sostanze inquinanti in genere ostacolano l’attività dei macrofagi alveolari, cellule che si trovano negli alveoli polmonari e hanno la funzione di “proteggerli” da possibili infezioni. Questo renderebbe più esposti ad agenti patogeni coloro che vivono in zone con più smog.
Le “autostrade dei contagi”
Partendo da uno studio del 2014 condotto a Pechino sulla diffusione di virus in zone inquinate, anche il Washington Post si è interrogato su un possibile legame tra la diffusione del COVID-19 e le condizioni di inquinamento atmosferico. «Le polveri sottili stanno veicolando il virus. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi» osserva Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari. «Lo studio non dimostra che l’inquinamento è la causa dei decessi così elevati in Lombardia, ma certo che sia non solo vettore, ma anche acceleratore nella diffusione. Le nostre ricerche ora proseguiranno, ma intanto ci portano a pensare che forse le misure di distanziamento sociale potrebbero essere rivalutate» spiega Miani.
Le misure adottate sono sufficienti?
«Alla luce di quanto analizzato forse mantenere la distanza di almeno 1 metro potrebbe non essere sufficiente nelle zone con più smog, così come nei luoghi indoor, al chiuso, dove l’inquinamento può essere anche di 5 volte superiore rispetto all’esterno. Da qui la necessità anche di seguire buone pratiche come ventilare, aprendo le finestre per qualche minuto, e utilizzare sistemi di filtrazione e depurazione dell’aria in tutti quegli ambienti chiusi come casa, ufficio, scuola e ospedali» conclude il presidente della Sima.