Dopo oltre un mese Mattia, 38 anni, noto come “paziente 1″ ha lasciato l’ospedale, è tornato a casa dalla moglie incinta e sta per diventare padre. Ha la stessa età di Annalisa Malara, medico anestesista della Terapia intensiva dell’ospedale di Lodi. Le loro vite si sono incrociate il 20 febbraio, quando Mattia è giunto in condizioni gravissime all’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, primo focolaio di coronavirus. In turno quel giorno c’era lei.
«Che il paziente fosse molto grave era chiaro fin da subito. Era la mattina del 20 febbraio quando è arrivato in ospedale a Codogno, dove ero in turno. L’ho raggiunto mentre faceva la Tac e ancora prima di visitarlo la situazione mi è sembrata subito drammatica. Aveva una polmonite compatibile con una causa virale, non c’era tempo da perdere, stava morendo. Così ho deciso di procedere al tampone anche se in quel momento il protocollo non lo avrebbe neppure previsto perché non sapevamo di contatti diretti con la Cina. I pochi dubbi inziali sono svaniti quando è arrivata la moglie, all’8° mese di gravidanza, che era in ospedale nello stesso momento per il corso preparto e aveva appena saputo del ricovero di Mattia, in rianimazione: l’ho fatta sedere in un ufficio e lei mi ha raccontato della cena con un collega del marito, che era stato in Cina. L’allarme è scattato immediatamente: abbiamo isolato il paziente, ci siamo protetti noi dell’équipe – io e il team di 3 infermieri in turno – abbiamo chiuso la rianimazione ai familiari e da lì abbiamo trascorso 36 interminabili ore di durissimo lavoro. Né io né il personale infermieristico abbiamo avuto dubbi: abbiamo avvertito il primario e la direzione sanitaria, e abbiamo deciso di continuare oltre i nostri turni per non lasciarlo fino a che non ci fosse stato un minimo segno di stabilizzazione».
«Sono uscita dall’ospedale solo alle 20 del giorno successivo, senza staccare mai. I colleghi con genitori anziani, figli o mariti si sono fermati nella foresteria allestita appositamente nei pressi dell’ospedale, io invece sono tornata a casa perché vivo da sola e non correvo il rischio di infettare i parenti. Non sono uscita per tre giorni, poi ho fatto il tampone (risultato negativo) e solo dopo altri quattro giorni senza sintomi sono tornata al lavoro. Nel frattempo ho realizzato quanto accaduto: finché ero in ospedale ho vissuto come un automa, non ho avuto il tempo per pensare, quell’uomo così giovane era in fin di vita, ho cercato solo di salvarlo. Soltanto dopo ho capito di aver fatto tutto il possibile, sia per lui sia per allertare tutti i colleghi degli altri ospedali che il coronavirus era arrivato in Italia e ovunque sono scattate le procedure previste dai protocolli nazionali».
«Se ho avuto paura? Certo, ma solo dopo. Per ore sono rimasta concentrata solo su quell’uomo, ho temuto per la sua vita. Poi ho capito che potevo correre dei rischi anche io, perché nella prima mezz’ora di presa di carico ero stata esposta, come gli altri del team di terapia intensiva. Lo stress emotivo e professionale è stato tantissimo e mi ha cambiato la vita, è stato come un punto di non ritorno: adesso c’è un prima e un dopo quel 20 febbraio. Vado al lavoro sapendo che i ritmi sono forsennati, abbiamo più che triplicato i posti della terapia intensiva per far fronte ai pazienti che arrivano numerosi, ma il personale si è ridotto, soprattutto i primi giorni, con alcuni che sono rimasti a casa in malattia o in quarantena, altri che sono stati ricoverati diventando pazienti a loro volta. Per fortuna è arrivato il preziosissimo aiuto dei colleghi dall’ospedale Niguarda di Milano, dal San Raffaele e da San Donato, poi si sono aggiunti i sanitari militari e di Medici Senza Frontiere. Abbiamo riorganizzato completamente l’ospedale, ma lavoriamo in condizioni estreme: persino bere un goccio d’acqua è difficile perché dobbiamo svestirci togliendoci le mascherine strette che segnano il viso, i doppi guanti, il casco e il camice, per poi lasciare la zona filtro e infine tornarvi rindossando tutto. Ma soprattutto dal punto di vista umano sto vivendo un’esperienza provante: vedo così tanti pazienti, anche giovani e in salute, che arrivano in condizioni serissime a causa di gravi polmoniti. Vivo l’apprensione di cercare di salvarli, ma anche di non ammalarmi. Spero di non scoprire mai di avere la febbre o di non trovarmi davanti, al loro posto, mia madre o un amico carissimo».
«Già, la mia famiglia. Non la vedo da settimane: mia sorella è in Spagna, i miei genitori vivono nella mia città, a Cremona, ma non li posso raggiungere: siamo in contatto solo con WhatsApp. Proprio ieri ho saputo che è morta mia nonna e io non l’ho potuta salutare. Io ho scelto questa professione spinta dalla passione, sono consapevole che richiede molta dedizione. Non la si fa per il ritorno economico: significa prendersi cura degli altri e comporta molti sacrifici, a livello personale e familiare. Io non ho figli, ma vedo l’enorme difficoltà delle colleghe che sono madri e devono spiegare ai figli perché non possono stare a casa con loro o perché, quando finalmente tornano dopo turni estenuanti, non possono abbracciarli se non dopo una doccia, per evitare il rischio di trasmettere il virus. Poi, però, penso al senso di riconoscenza dei familiari dei pazienti, quegli stessi ai quali comunico (per telefono perché non possono venire in ospedale a far visita) le condizioni cliniche dei loro cari, compreso il decesso. È straziante, ma dall’altra parte del filo sento anche una vicinanza e una gratitudine inimmaginabile».