Dopo l’emergenza SARS del 2002-2003 l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva esortato tutti i Paesi a dotarsi di un piano pandemico da mettere in atto proprio in occasione di una eventuale nuova pandemia. L’Italia aveva seguito le indicazioni, realizzandone uno nel 2018. Ma che fine ha fatto? È stato seguito? «Si tratta di piani strategici, che forniscono linee guida generali e vanno poi implementati a seconda delle necessità. In questo caso è stato seguito, ma si è scontrato con un’imprevedibilità che ha messo in crisi il sistema produttivo-industriale, ad esempio con una richiesta incredibile di dotazioni di protezione, come mascherine o tute» spiega Fortunato D’ancona, medico epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità.
Cos’è un piano pandemico
«È un programma pensato per far fronte a una malattia nuova con diffusione mondiale, che colpisce dunque un’ampia popolazione priva di anticorpi, causando potenzialmente il sovraccarico del sistema sanitario. Prevede un coordinamento di tutte le varie attività da mettere in campo, ma è pur sempre generico, perché non si conosce la malattia che arriverà» spiega D’Ancona.
A ogni Stato il suo piano
Ciascun Paese mette a punto un proprio piano pandemico che può avere standard comuni, ma deve poi tenere conto delle specificità nazionali: «Le linee comuni sono suggerite dall’OMS, sulla base delle precedenti esperienze e in particolare della SARS, ma è chiaro che le modalità di controllo dell’epidemia sono differenti tra realtà come quella cinese, italiana o inglese. Ad esempio, in Italia la sanità è regionale, mentre nel Regno Unito è coordinata a livello centrale» spiega l’esperto.
L’Italia ha sottovalutato l’emergenza?
Il piano italiano contro una eventuale pandemia prevedeva, tra le altre disposizioni, «la preparazione di appropriate misure di controllo della trasmissione dell’influenza pandemica in ambito ospedaliero», come riferisce Il Fatto quotidiano, in un passaggio del piano che è riservato e condiviso da Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità e Regioni. Eppure sembra che proprio la fornitura di dotazioni come mascherine o tute sia inadeguata, specie in regioni come la Lombardia. Come si spiega? «L’uso di mascherine e altre dotazioni di protezione, insieme alla disinfezione, sono già previsti negli ospedali dai protocolli per le malattie infettive, rafforzati ulteriormente e in modo specifico per il coronavirus. Il vero problema è che questa emergenza è arrivata con una velocità imprevedibile. È come se ci fossimo preparati a un terremoto con un certo quantitativo di scorte: più di tanto non si può tenere, perché altrimenti il materiale deperisce e scade» dice l’esperto dell’ISS.
Richieste enormi rispetto a scorte di routine
«Può sembrare che ci sia stata una sottovalutazione, ma non è così. Il vero problema sta nei tempi di risposta del sistema produttivo. Le riserve di magazzino a disposizione sono limitate alle evenienze di routine. Nel momento in cui si è presentata l’emergenza coronavirus, la richiesta incredibile di dispositivi di protezione individuale ha messo in crisi il sistema industriale che, abituato a produrre in base alle richieste normali, non ha potuto far fronte a quelle enormi e immediate che sono giunte» dice d’Ancona. La dimostrazione è che alcune fabbriche sono state riconvertite, mentre in altre sono arrivati gli esperti militari per aumentare la produzione, ad esempio, di ventilatori polmonari.
Possibile il “riuso” di mascherine e tute a livello mondiale?
«Il problema non è solo italiano. Nelle teleconferenze mondiali che stiamo tenendo in questi giorni e in queste ore, si sta discutendo altre possibili soluzioni per razionalizzare l’uso dei dispositivi attualmente disponibili. Ad esempio, si sta cercando di capire se è possibile riutilizzare le mascherine dopo una sterilizzazione, oppure prolungarne l’uso con modalità che ne garantiscano comunque la sicurezza totale. Da un punto di vista pratico è fattibile, ma da quello legale ci sono difficoltà perché questi prodotti sono pensati per il monouso. Insomma, la pandemia sta richiedendo uno sforzo enorme e contemporaneo che non risparmia nessuno» conclude Fortunato D’Ancona.