La Regione Lombardia, la più colpita dal coronavirus, a due quasi due mesi dall’inizio dell’epidemia ha annunciato un cambio nelle procedure, con il raddoppio dei giorni previsti per la quarantena, da 14 a 28. Una misura precauzionale, di fronte a dati su contagiati e vittime sempre molto elevati. Intanto, proprio le informazioni raccolte finora anche su base nazionale portano ad avere le idee più chiare su infettività e tempi di guarigione, mentre resta incertezza su eventuali recidive.
Quarantena in Lombardia: sale a 28 giorni
«Abbiamo deciso di prorogare a quattro settimane la quarantena per chi è malato e stiamo prevedendo dei tamponi per il controllo di chi deve rientrare al lavoro anche se non ha fatto il primo tampone per verificare la positività». Così l’Assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Giulio Gallera, che ha motivato il provvedimento come «garanzia per tutti». La misura riguarda sia chi è già positivo, sia chi dovesse risultarlo dopo i controlli. «Il problema si pone per quella quota di persone, al momento non quantificabile, che risulta ancora infettiva dopo 7 giorni dalla scomparsa della sintomatologia. Nel caso in cui sia sottoposta a tampone e fosse positiva, sarà necessario ripetere il controllo dopo un certo numero di giorni non ancora stabilito. Ma per coloro che non hanno avuto bisogno di un’ospedalizzazione, dunque sono rimasti a casa in autoisolamento, sarebbe necessario un tampone per un ritorno alle attività lavorative e alla vita sociale anche dopo 14 giorni. Da qui il motivo della scelta di considerare l’allungamento della quarantena a 28 giorni, quando l’infettività dovrebbe essere terminata in un maggior numero di persone» commenta Paolo D’Ancona, epidemiologo, ricercatore del Reparto di Epidemiologia delle Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità.
Per quanto si è contagiosi
È la domanda che ritorna con maggiore frequenza dall’inizio della crisi sanitaria e per la quale le risposte sono in parte cambiate di fronte ai dati clinici. «Fino a qualche tempo fa per noi operatori sanitari il rientro in servizio era previsto, previo tampone, dopo 2/3 giorni dalla scomparsa dei sintomi, ed esattamente dopo 72 ore senza febbre e 24 ore senza ossigeno. Ora la finestra si è allungata a 7 giorni dalla guarigione peril primo tampone anche alla luce di casi di soggetti che, pur negativi, hanno ancora insufficienza respiratoria, segno che il virus è nei polmoni e non più nel naso o in gola. Questo ci ha confermato che esiste una grande variabilità» spiega Massimo Puoti, Direttore del Reparto di Malattie Infettive all’Ospedale Niguarda.
Positivi dopo un mese?
Ha fatto il giro del web il videomessaggio della giornalista di Sky Italia Giovanna Pancheri, che ha raccontato di essere ancora positiva dopo un mese: «Le variabili possono essere molte. Ci possono essere casi di maggiore permanenza del virus nell’organismo o di tamponi falsamente negativi» precisa Puoti. «Ci sono anche alcune indicazioni relative alla presenza del virus o di suoi frammenti nelle feci di persone con tampone negativo, che sono oggetto di studio e ricerche. Così come non è detto che queste piccole parti risultino infettive. Per questo occorre seguire la strada della massima prudenza e precauzione» spiega l’epidemiologo Paolo D’Ancona.
Tamponi: non sono una garanzia
«Purtroppo anche il tampone è uno strumento imperfetto sia per la diagnosi che per la contagiosità, pur rimanendo il più efficace di cui disponiamo in questo momento di emergenza, non paragonabile a quelli che abbiamo per esempio per individuare altre infezioni. Ci permette di vedere se c’è il virus (o parti di esso) tramite l’RNA, ma per sapere se sia in grado di contagiare dovremmo procedere con una coltura virale, che richiede tempi più lunghi e procedimenti più elaborati. D’altro canto, i test sierologici sono meno affidabili, perché ci possono dire se siamo entrati in contatto con il virus, ma non ci danno certezza di essere immunizzati» spiega l’infettivologo Puoti.
Ci si può ammalare due volte?
Un altro interrogativo riguarda le recidive: è possibile ammalarsi una seconda volta? Se lo chiedono anche in Francia, dove si pensa alla fase 2 e si è ipotizzata anche la riapertura delle scuole dopo l’11 maggio. Secondo l’immunologo francese Jean-Fracois Delfraissy, che guida il comitato scientifico a cui si affida il presidente Macron, la “vita” degli anticorpi che si sviluppano dopo il Covid-19 è molto breve e i casi di recidiva non sarebbero da sottovalutare.
A Milano la “paziente 1 recidiva” è una donna di 40 anni di origini cinese, giudicata guarita dopo due tamponi negativi, ma che dopo dieci giorni ha accusato nuovamente febbre e tosse. Altri casi, ma molto limitati numericamente, si sono registrati sia in Cina che in Corea del Sud. «Sulle recidive non ci sono ancora evidenze scientifiche, i casi vanno presi con molta prudenza. Si dovrebbero condurre una serie di accertamenti, come la mappatura del genoma per escludere, ad esempio, che il secondo virus appartenga a un ceppo differenti rispetto al primo con il quale i pazienti sono venuti in contatto» spiega Puoti. La seconda ipotesi è che il risultato dei tamponi sia stato falsato per qualche motivo, considerando che «si tratta di uno strumento messo a punto nel pieno dell’emergenza e dunque meno preciso di quelli di cui disponiamo già per individuare, invece, altre malattie virali infettive» conclude l’esperto.