Sono partita quando l’invito era a “non fermarsi”, nonostante tutto. Quando dovevamo imparare nuove regole per stare insieme, nuove attenzioni alla nostra igiene, ma al tempo stesso non fare inceppare l’economia. Sono tornata nelle ore in cui Milano e la Lombardia venivano sigillate. Un giorno capiremo cosa ci aveva fatto credere che la curva epidemiologica, da noi, sarebbe andata diversamente che in Cina. Fatto sta che nella settimana intercorsa tra i due messaggi istituzionali di tono opposto,il contagio ha preso l’impennata che avremmo dovuto evitare. In quella stessa settimana, mentre navigavo lungo il Nilo, ho trovato la risposta a una domanda che mi assilla da sempre.
Da ragazza cresciuta in Puglia, all’ombra dell’Ilva, mi chiedevo come facessero migliaia di operai ad andare a lavorare in una fabbrica che li stava avvelenando. Come poteva essere più importante un posto di lavoro della loro vita. La risposta l’ho trovata negli occhi degli egiziani, dall’equipaggio alle guide, dai commercianti al personale dell’aeroporto, che al nostro dichiararci italiani neppure si scostavano di un centimetro. Che a un nostro starnuto, rigorosamente contenuto nel gomito, neppure sussultavano. Il terrore nei loro occhi è apparso quando si è aggravata la situazione italiana. E non era dovuto alla paura del contagio ma a una paura più profonda. Se al virus pensano di sopravvivere, alla perdita del lavoro no.
Nei loro sguardi si riflette quello di attori e musicisti pagati a serata, negozianti e ristoratori, di tutte le partite Iva, i lavoratori a chiamata e i piccoli imprenditori che vivono grazie a chi viaggia, a chi è libero di muoversi, a chi consuma cultura. Quale decreto o aiuto di Stato potrà mai davvero aiutare loro, i protagonisti di questa che è poco più che una economia di sussistenza? Eppure, adesso, ci chiedono di non pensare a loro.
Tornata in una Milano blindata da un decreto legge, nel tratto di strada che separa la stazione da casa, vedo decine di ragazzi seduti nei caffè. Sfidano la paura? Fanno girare l’economia? No, mettono in pericolo un’altra categoria, che sta lavorando per tutti noi. Nella chat delle mie amiche d’infanzia,su WhatsApp, ci sono due medici: una lavora in Svizzera, l’altra in Puglia. Oltre mille chilometri di distanza, stessa sorte. Revocate ferie e permessi. Le mascherine se le sono fatte in casa. E anche se dovessero contrarre il virus, devono continuare a lavorare finché non hanno sintomi. Si stanno ammazzando per salvare una vita in più. Noi per aiutarli, dobbiamo solo stare a casa. Adesso ce lo hanno spiegato bene. Facciamolo.