È stato fatto un bando per creare una task force di 300 medici da inviare nelle zone di maggior contagio da coronavirus, a partire dal triangolo Lodi-Bergamo-Cremona. E hanno risposto in quasi 8.000, alcuni 80enni in pensione. Gli ospedali sono al collasso, c’è carenza di posti nelle terapie intensive e le Forze Armate stanno lottando contro il tempo per allestire reparti ad hoc e ospedali da campo. In questa situazione c’è chi parla di “effetto lazzaretto” e di “eccesso di ospedalizzazioni”: cosa significa?
Risponde Giorgio Palù, docente di Virologia e microbiologia all’Università di Padova, in questi giorni interpellato anche dalla CNN sulla situazione italiana: «Abbiamo una media del 40-50% di positivi ospedalizzati, che in Lombardia arriva al 60%: è assurdo, non dovremmo andare oltre il 20% altrimenti si crea un effetto Diamond Princess (la nave da crociera bloccata in Giappone con soggetti contagiati a bordo, NdR)».
Perché si è creato il triangolo Lodi-Bergamo-Cremona?
Ma come si è arrivati a questa condizione di criticità? «Il coronavirus è un virus a diffusione nosocomiale: non si dovrebbero ricoverare pazienti COVID-19 in ospedali dove ci sono reparti di geriatria, familiari in visita o dove gli ammalati oncologici vanno a fare la chemioterapia. È accaduto a Treviso, ad esempio, mentre a Lodi l’emergenza è rientrata prima anche perché, trattandosi di un ospedale piccolo, i primi pazienti sono stati trasferiti a Bergamo». È dunque questo uno dei possibili motivi della diffusione massiccia del virus a in questa città lombarda? «Questi sono fatti. Io dico che non abbiamo saputo fare tesoro dell’esperienza con la Sars perché da noi, a differenza della Cina, non c’è praticamente stata. Lì, invece, hanno pensato subito di costruire ospedali dedicati solo al COVID-19, per ridurre al minimo i contagi anche tra il personale sanitario: ne hanno realizzati 12 nella provincia di Hubei, 3 a Wuhan» spiega il virologo Giorgio Palù, ex presidente della Società europea di virologia.
È difficile tracciare il percorso del contagio
«È come se alla mattina ci fossimo alzati scoprendo che accanto a noi sono crollati interi palazzi e si è creata una voragine. Da noi il COVID-19 è stato come un terremoto, è arrivato e ha distrutto. Non eravamo pronti? Come si faceva ad esserlo? Si pensava che Wuhan fosse un caso estremo. Forse c’è stata una sottovalutazione, ma di tipo organizzativo, perché dal punto di vista clinico eravamo e siamo preparati» premette Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina Generale. «È difficile tracciare ora il percorso del coronavirus, in questo momento ci abbiamo rinunciato perché abbiamo troppi casi e ormai non serve. I primi pazienti portati da Lodi a Bergamo possono aver contribuito, certo. Ma non dimentichiamo i milioni di cittadini lungo l’autostrada, le centinaia in coda nelle stazioni sciistiche in quel periodo e altre occasioni di contagio, come i bambini nei parchi nei primi giorni di chiusura delle scuole» dice Cricelli.
In Lombardia le statistiche sono distorte
«Io credo che in regioni come Lombardia dove la circolazione è elevatissima, i ricoverati siano veramente pazienti gravi. Tuttavia ipotizzo che ci siano molti casi non diagnosticati che magari stanno a casa in quarantena, senza tampone e che quindi non sono stati contati come casi positivi. Questo fa sì che, almeno in Lombardia, stiamo vedendo delle statistiche un po’ distorte, che descrivono di più i casi severi piuttosto che tutti i malati in genere» spiega Fortunato D’Ancona, medico epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità, che aggiunge: «In altre regioni come il Veneto, si vedono più pazienti a casa, come ci aspettiamo che sia».
Ci sono troppe ospedalizzazioni?
Ma le ospedalizzazioni sono troppe? Secondo gli esperti non è possibile confrontare i dati del contagio e delle ospedalizzazioni tra Cina e Italia, prima di tutto perché la popolazione è differente: «Wuhan, focolaio cinese, oggi è una città industriale e moderna, abitata da una popolazione giovane, a differenza di quella italiana. Inoltre, noi stiamo facendo molti tamponi, dunque risultano anche numerosi casi di contagio» precisa Cricelli. Dai dati di venerdì 20 marzo, in Italia risultavano circa 37mila positivi (esclusi i guariti e i decessi). Di questi 19.135 si trovavano a casa, in isolamento o quarantena, mentre 16.020 erano ricoverati (2.665 in terapia intensiva). Ciò significa che circa il 43% a livello nazionale di chi ha il COVID-19 è in ospedale. Secondo il virogolo Palù non si dovrebbe andare oltre 20%, anche per evitare contagi intraospedalieri.
Più cauto Raffaele Bruno, Primario della Struttura di Malattie Infettive della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, dove è stato ricoverato Mattia, il 38enne paziente numero 1: «Noi abbiamo appena pubblicato uno studio sul Journal Hospital Infection, dopo aver effettuato tamponi su diverse superfici in ospedale. Non abbiamo trovato il coronavirus, confermando che ha soprattutto una trasmissione di tipo inalatorio, per aerosol. È naturale, però, che gli operatori sanitari che lavorano 6/8/10 o 12 ore con indosso mascherine e tute, maneggiando da vicino pazienti COVID-19 corrono dei rischi. Occorre, quindi, la massima attenzione».
La necessità di ospedali ad hoc
«Il percorso preferenziale per i casi sospetti di COVID-19 è ormai già implementato negli ospedali. È vero che si stanno attrezzando ospedali dedicati solo ai pazienti contagiati da coronavirus» spiega l’epidemiologo Paolo D’Ancona dell’ISS. Tre gli obiettivi: «Questo tipo di strutture viene implementato laddove possibile per facilitare l’assistenza da personale specializzato, per evitare contagi intraospedalieri tra i pazienti e per creare procedure uguali in tutto l’ospedale. È molto più sicuro e pratico anche per il personale che non deve ogni volta svestirsi e rivestirsi con le protezioni specifiche, come tute, guanti, ecc., prima di avere contatti con pazienti COVID-19» spiega D’Ancona.