Ida risponde al telefono con una voce vivace, solo un po’ roca. «È per via dell’intubazione» dice. «Mi è rimasta così». Da quando il 13 maggio è stata dichiarata guarita dal Covid vive da suo figlio e sua nuora a Gallarate, in provincia di Varese. Di stare da sola non se la sente, non ancora. «Faccio da mangiare, esco in auto per commissioni. Sa, a me piace camminare, ci vado quasi tutti i giorni, ma ieri ho fatto una salita e a momenti svenivo. Se esagero mi manca ancora il fiato».
Ad agosto Ida farà 56 anni, la sua “seconda vita” dopo il Covid è ricominciata quasi un mese fa, dopo 60 giorni di ricovero. Di questi, quasi la metà in terapia intensiva all’ospedale Humanitas Mater Domini di Castellanza, incosciente e intubata, sotto farmaci per tenere a bada la polmonite e tutte le conseguenze devastanti della malattia.
È lei a raccontarlo e a elencare uno a uno i segni che il virus le ha lasciato: «Ho perso dieci chili. Ogni giorno prendo l’eparina perché ho un coagulo di sangue in un braccio, se non lo faccio rischio la trombosi. Una parte della gamba è ancora addormentata, i medici non sanno dirmi il perché, ma se la tocco non la sento. E poi i capelli. Sarà stato lo stress ma quando mi pettino mi restano in mano ciocche intere. Mi faccio coraggio, ricresceranno, e dopotutto mi è andata benissimo, i medici avevano detto alle mie sorelle che non ce l’avrei fatta».
Uno studio sui pazienti contagiati dalla Sars ha riscontrato
che un anno dopo le dimissioni uno su tre soffriva di depressione. Ora gli
specialisti temono che accada lo stesso per i guariti dal Covid
I primi dati riportati al congresso della Società italiana di pneumologia rivelano che con i sopravvissuti al Covid si sta ripetendo quello che si era già verificato durante le epidemie di Sars e di Mers: il 30% dei pazienti più gravi può riportare conseguenze polmonari importanti e a volte permanenti, con una limitata capacità di respirare. Per loro tornare a vivere come prima non è possibile. E anche quando la diagnosi non è così drammatica, gli effetti dell’infezione non terminano all’uscita dai reparti di cure intensive. È anzi allora che i malati imboccano una nuova strada in salita. «Delle settimane in cui ero intubata ricordo poco o nulla: mio padre, mancato anni fa, che mi stringeva la mano, le voci, le braccia delle infermiere che mi sistemavano in posizione prona per farmi respirare meglio. Ma non sentivo nulla, il peggio è arrivato dopo. Perché quando mi sono svegliata mi sono resa conto che avevo un tubo in gola e non potevo parlare, il corpo era rigido e non riuscivo a muovermi. La stanchezza mi impediva di spostare anche solo un muscolo. Ho realizzato che avrei dovuto ricominciare tutto daccapo, e ho pianto».
La “fase due” di Ida è iniziata con un casco che, come dice lei, le “sputava aria calda in faccia”, la fatica di deglutire, la lotta con la febbre alta e una batteria di esami e accertamenti: emogas, prove di respirazione, analisi del sangue, ecodoppler. Poi è arrivata la riabilitazione. «Quando ero ancora in reparto, il fisioterapista arrivava in stanza e muoveva i muscoli per me, perché non ne avevo la forza, sono stata immobile in tutto 40 giorni. Gli esercizi servivano a riattivare gli arti indolenziti, poi ho iniziato a collaborare e a mettermi in piedi. Appena mi muovevo avevo subito l’affanno».
Il ritorno all’autonomia, per chi è rimasto immobile sotto sedativi e ha respirato per giorni con una macchina, è lento e faticoso. Il fisico è debilitato e i polmoni non riescono a lavorare da soli, hanno bisogno dell’ossigeno. Possono volerci due o tre settimane per recuperare: agli esercizi corporei bisogna abbinare quelli respiratori e fare attenzione che il paziente non vada in affanno. E la riabilitazione continua anche fuori dagli ospedali, per esempio nei Covid Hotel, gli alberghi dove i “guariti” ancora positivi al virus vengono ospitati in attesa che il loro tampone diventi negativo. Qui ogni giorno li attendono lunghe sedute con i fisioterapisti. Ida è stata trasferita in una struttura così a Bergamo. «A chi ti guarda da fuori sembra che tu non faccia quasi nulla ma in realtà è come se ogni giorno tu corressi una maratona. Oltre alle sedute di riabilitazione, camminavo nei corridoi e ricordo la fatica. Per molti giorni non sono riuscita a percorrerli senza dovermi fermare, pochi passi bastavano per farmi sentire sfinita».
Ora, dopo un mese, Ida ha una vita quasi normale ma il futuro è un grande punto di domanda. «Sono un’artigiana e ho lavorato per una vita nei calzaturifici, poi l’ultimo contratto a termine in fabbrica, scaduto il 17 febbraio, poco prima di essere contagiata. Il rinnovo è saltato ed è successo quello che è successo. Mi salva la disoccupazione: chiederò l’indennità Covid». Ma Ida lo sa che questo è un palliativo temporaneo e se glielo proponessero tornerebbe subito in fabbrica. «Lo farei senza pensarci, anche se so che stare in piedi, spostare pesi e scatole per 8 ore sarebbe durissima: in ospedale ho conosciuto donne e uomini più giovani di me e che erano in condizioni meno gravi delle mie. Eppure sono quasi tutti a casa».
Non tutti i reduci dal Covid possono tornare a lavori pesanti come quello di Ida: chi riporta danni ai polmoni può avere bisogno anche di 12 mesi di terapie prima di riprendersi. E se i danni sono permanenti, la sola strada per tutelarsi è chiedere il riconoscimento dell’invalidità all’Inps. Ida però ce la può fare: la sua Tac non ha rilevato segnali preoccupanti. «A metà giugno farò di nuovo i controlli e a settembre voglio ripartire. Ma devo liberarmi da quel sogno, quel brutto sogno che faccio sempre in cui io sono di nuovo in terapia intensiva».
Gli ambulatori per curare le conseguenze del coronavirus
35 metri in 6 minuti. È un traguardo facile perfino per un bambino, ma riuscire a percorrerli ha per i pazienti Covid un significato molto importante. Il test, assieme a una serie di esami diagnostici come eco e Tac al torace, viene usato per valutare la capacità respiratoria di chi è stato colpito più duramente dal virus.
«Se il paziente non riesce a coprire il percorso, se deve fermarsi, o se il suo livello di ossigenazione diventa insufficiente, è la spia che la malattia ha lasciato conseguenze» spiega Angelo Corsico, direttore della Pneumologia della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. Nel reparto c’è uno degli ambulatori “post Covid”, che stanno nascendo nell’epicentro dell’epidemia per seguire i tanti pazienti alle prese con i postumi dell’infezione.
«Qui al San Matteo abbiamo curato circa 1.200 persone. Ne abbiamo riviste quasi 200 per i controlli, rilevando che molte non hanno recuperato a pieno le funzioni respiratorie» dice Corsico. «Specie chi ha vissuto la terapia intensiva, a due mesi dalle dimissioni mostra ancora i segni della malattia alle prove di respirazione o agli esami radiologici. Ma il primo ad accorgersi che qualcosa non va è il paziente perché sente che non riesce più a respirare come prima».
Minor volume dei polmoni, poca forza nei muscoli respiratori, poca resistenza agli sforzi sono gli effetti più frequenti, e possono volerci da 6 a 12 mesi per il recupero. Nella peggiore delle ipotesi gli esami evidenziano però danni irreversibili. «A volte la malattia lascia su vaste aree dei polmoni delle cicatrici di tipo fibrotico, che le rendono rigide e incapaci di funzionare. L’organo lavora solo a metà e chi è in questa situazione è destinato a diventare un malato cronico che dovrà fare terapie e controlli per tutta la vita».
Negli ambulatori Covid il paziente viene valutato da una équipe multidisciplinare composta da pneumologi, cardiologi, neurologi, fisioterapisti e psicologi, che disegnano un intervento personalizzato. Essenziale è la fisioterapia per allenare i muscoli e gli esercizi respiratori, per sfruttare meglio la potenza polmonare. «Ma il Covid colpisce anche i vasi sanguigni e determina per molti un rischio di trombosi» continua il medico. «Ha anche un impatto psicologico notevole: c’è chi si è sentito dire da un momento all’altro che sarebbe stato sedato e intubato e non sapeva se si sarebbe risvegliato, non è facile riprendersi dopo simili spaventi».