Quattro italiani su 10 non pensano di vaccinarsi contro il coronavirus. Un dato che fa riflettere quello emerso da una ricerca dell’EngageMinds Hub dell’università Cattolica, che nei giorni scorsi ha intervistato un campione di 1.000 persone. Forse ci sentiamo meno in pericolo? Certo, contagiati e vittime scendono mentre salgono le Regioni “free”, ovvero libere dal Covid. Ma il focolaio di Mondragone, in provincia di Caserta, e i tanti altri che si accendono in Italia e in Europa quasi ogni giorno, dicono che il virus non si ferma. Lo ha più volte ribadito anche il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom: si vincerà solo con una terapia definitiva e un vaccino.
La terapia definitiva anti-Covid
Adesso questa terapia definitiva potrebbe essere veramente vicina. Nelle ultime settimane i riflettori si sono accesi sugli anticorpi monoclonali. «Sono molecole che bloccano l’ingresso del virus nelle cellule» ci spiega Giuseppe Novelli, genetista di fama mondiale. «Mettiamo che il nostro organismo sia una serratura: il Covid ci entra con una chiave, la proteina Spike. Gli anticorpi la riconoscono, la attaccano e chiudono la porta». Per produrre il primo farmaco che, almeno sulla carta, è in grado di sconfiggere definitivamente l’infezione si fa gioco di squadra, con l’Italia protagonista.
Il team dell’università di Roma Tor Vergata, guidato dal professor Novelli, sta lavorando con l’ateneo di Harvard, l’università di Toronto e un’équipe di ricercatori indiani. E la molecola che viene messa a punto in questi laboratori è la versione innovativa del plasma dei convalescenti, di cui tanto si è parlato. «Chi guarisce sviluppa anticorpi, quindi il suo sangue può aiutare i malati a combattere il coronavirus» spiega ancora il professor Novelli. «Ma purtroppo si è visto che solo il 30% dei pazienti può donarlo, in più a oggi non si sa quanti anticorpi contenga e quindi quanto riesca a essere efficace. Allora, noi questi anticorpi li costruiamo in laboratorio. L’università di Toronto ha una biblioteca speciale che ne contiene miliardi: li abbiamo studiati e siamo arrivati a selezionarne una decina utili. Poi ci siamo concentrati su 4 e alla fine siamo arrivati a 2: ottimi candidati per diventare farmaci».
A questa straordinaria avventura scientifica sta partecipando anche un laboratorio di eccellenza, che in questi mesi abbiamo conosciuto molto bene. È quello diretto dalla professoressa Maria Capobianchi dell’Istituto Spallanzani di Roma, che a febbraio ha isolato, per primo in Italia, il virus. «In queste settimane abbiamo fatto i cosiddetti test in vitro su virus e molecole. Per valutare e scegliere gli anticorpi più potenti, quelli capaci di neutralizzare l’infettività di Covid-19, occorrono strutture specializzate come la nostra, in grado di maneggiare il virus, che appartiene al gruppo di rischio 3 (quelli che provocano malattie gravi o mortali, ndr). Ora ci auguriamo di passare ai test sull’uomo». «Adesso cerchiamo finanziamenti e pensiamo a una joint venture, una collaborazione tra più soggetti come case farmaceutiche e istituzioni perché, come per il vaccino, servono velocità e molte dosi» conclude il professor Novelli. «Se partiamo a breve, in 5-6 mesi potremmo avere una semplice iniezione che salva la vita a chi viene contagiato».
A che punto siamo con il vaccino anti-Covid
Anche il vaccino sembra pronto a diventare realtà. A oggi ad aver raggiunto risultati concreti ci sono almeno 4 o 5 studi. In questi giorni ha fatto parlare quello dell’Accademia militare cinese delle scienze mediche e dall’azienda CanSino Biologics: la cosidetta terza fase di sperimentazione (quella sull’uomo a larga scala) è appena partita sui militari dell’esercito ma la commercializzazione sembra ancora lontana.
In pole position spicca invece quello nato allo Jenner Institute dell’Università di Oxford, con la collaborazione dell’azienda italiana IRBM. Infatti, in Inghilterra a metà maggio è già iniziata la terza fase. «Con la prima abbiamo testato circa 500 volontari, poi siamo arrivati a 5.000, sempre in Gran Bretagna, e ora procediamo in Brasile, dove la pandemia è ai massimi, e in Africa» spiega Sarah Gilbert, a capo del team di scienziati a cui tutto il mondo guarda. «Finora è andato tutto bene.
Si tratta di una profilassi di tipo genetico: usiamo un virus che è stato modificato nel Dna, rendendolo innocuo, per trasportare la famosa proteina Spike nell’organismo e indurlo così a far partire la produzione di anticorpi». Così se e quando entrerà in contatto con il Covid il corpo vaccinato saprà già come bloccarlo. Sarah Gilbert e il suo team contano di finire la sperimentazione a settembre.
Ma la macchina per produrre il vaccino è già in moto: a occuparsene il colosso mondiale della biofarmaceutica AstraZeneca, che ha annunciato un accordo con 4 paesi dell’Unione europea, Italia compresa, per 400 milioni di dosi. «Oltre 1.000 tecnici sono già al lavoro anche se produciamo “a rischio” perché tecnicamente, finché la sperimentazione non sarà chiusa, non possiamo dire di avere un vaccino, ma un candidato. Il comitato indipendente che ha valutato i risultati della prima fase però ha raccomandato di procedere» spiega Lorenzo Wittum, amministratore delegato di AstraZeneca Italia.
E la sicurezza? «Siamo rapidi perché tagliamo la burocrazia, non i controlli» risponde. «Il prodotto sarà testato su 60.000 persone, come ogni altra profilassi. Una prima parte potrebbe arrivare in Italia già prima di Natale, il resto con l’anno nuovo».
Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, ha suggerito che all’inizio si potrebbero vaccinare operatori sanitari, forze dell’ordine e persone a rischio, come gli anziani. «Poi ci sarà per tutti. E arriverà a prezzo di costo, circa 2-3 euro a fiala, senza profitto per noi» conclude Lorenzo Wittum. «È una specie di operazione no profit, ma in tempi di pandemia si fa così».