La nuova sfida sanitaria legata al coronavirus è alle porte. Mentre i numeri dei contagiati e dei ricoverati cala giorno dopo giorno, la task force medico-scientifica che sta gestendo l’emergenza pensa alla fase 2, a come rimettersi in cammino verso la normalità proteggendosi dal cosiddetto contagio di ritorno. Un rischio, questo, che si è già presentato a Hong Kong: con la riapertura della città dopo il lockdown l’infezione virale ha ripreso a circolare.
I tamponi da soli non bastano più. Servono nuovi esami per individuare i contagiati inconsapevoli. E l’arrivo dei primi test per la ricerca degli anticorpi, esami del sangue che sarebbero in grado di identificare velocemente le persone che si sono già ammalate e hanno sviluppato un’immunità al Covid-19, ha sollevato grandi entusiasmi, prontamente smorzati dal nostro ministero della Salute. Abbiamo chiesto di fare chiarezza a un grande esperto del tema: Francesco Menichetti è direttore dell’Unità operativa complessa di malattie infettive dell’azienda universitaria di Pisa e presidente del Gruppo italiano per la stewardship antimicrobica.
Professore, la prima domanda è d’obbligo: ci spiega la differenza tra il nuovo test e il tampone?
«Il tampone nasofaringeo è l’esame diagnostico di riferimento perché permette di identificare il genoma virale, cioè la presenza del virus, con una elevata percentuale di sensibilità. Il test sierologico, invece, ricerca gli anticorpi che l’organismo produce a partire da qualche giorno dopo l’inizio dell’infezione. Per questo, attualmente, ha un valore epidemiologico: ci permette di distinguere sommariamente chi non ha avuto l’infezione da chi invece l’ha sviluppata. Sottolineo sommariamente, perché i test disponibili oggi e in particolare quelli cosiddetti rapidi, eseguiti su una goccia di sangue, hanno una sensibilità dell’80%: significa che su 10 persone testate 2 potrebbero essere malate e quindi contagiose, anche se il risultato è negativo. Ora si sta lavorando a test più sofisticati che sono eseguiti con tecniche immuno-enzimatiche. Per intenderci, le stesse utilizzate per valutare l’infezione da Hiv. Con questi i risultati potrebbero migliorare».
Per diagnosticare la malattia quindi resta solo il tampone?
«Sì, a oggi viene eseguito per confermare la diagnosi e in seguito per definire la guarigione. Il paziente viene considerato non più infetto quando risultano negativi 2 tamponi eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro».
Ma quanto dura l’immunità?
«Al momento non lo sappiamo, il Covid-19 è una malattia troppo recente. Pensando a come si comportano gli altri virus che fanno parte della stessa famiglia, possiamo ipotizzare che l’immunità sia duratura. Per avere informazioni certe però ci vorrà del tempo, perlomeno un anno, e in questo periodo il test sierologico potrebbe avere una sua utilità. Perché chi lo esegue potrebbe essere coinvolto in un progetto di ricerca e chiamato periodicamente per un controllo: così faremo un monitoraggio dell’andamento dell’immunità».
Alcune Regioni come la Toscana, il Veneto e l’Emilia partiranno a breve con controlli a tappeto che usano proprio il test sierologico. Ma se non sono esami sicuri perché farli?
«Lo scopo in questo caso non è identificare chi ha sviluppato l’immunità ma al contrario i pazienti infetti asintomatici, che rappresenterebbero circa il 15-20% della popolazione, secondo i dati emersi da uno studio veneto. Se dal test risulta la presenza degli anticorpi, viene eseguito il tampone: se questo è positivo, significa che è in corso l’infezione, silente per la persona, ma contagiosa per gli altri, ed è necessaria la quarantena. Questo controllo verrà effettuato inizialmente sul personale sanitario, sugli operatori e gli ospiti delle Rsa, che insieme rappresentano qualche centinaia di migliaia di persone. Sono tantissime se pensiamo all’elevata contagiosità del Covid-19: non dimentichiamoci che ogni persona infetta può contagiarne a sua volta 3».
E così, alla fine, si torna sempre ai tamponi: ma come faremo quando non ce ne saranno più?
«La carenza non riguarda il tampone in sé, cioè il bastoncino che viene utilizzato per raccogliere il campione di mucosa nel naso e nella faringe, ma i reattivi, le sostanze che permettono di identificare la presenza del genoma virale. È un problema che accomuna tutto il mondo e si stanno già proponendo soluzioni ingegnose. Ad esempio, se si analizzano con lo stesso reagente 4 tamponi alla volta di 4 persone diverse, nel caso di risultato negativo si è impiegato un solo test per 4 soggetti, mentre se la reazione risulta positiva, il tampone va ripetuto individualmente. Calcoli statistici hanno dimostrato che con questo approccio si è più veloci e si risparmia sui reattivi».
Tamponi e test sierologici però stanno stimolando alcuni laboratori privati a proporre indagini a pagamento. Ma ci si può fidare?
«La gestione deve essere coordinata dal Servizio sanitario nazionale e non solo per permettere ai singoli cittadini di risparmiare. Intanto, i laboratori di analisi selezionati hanno tutti le medesime caratteristiche per quanto riguarda le tecniche impiegate e le modalità operative. Inoltre, sono tutti collegati “in rete” e questo evita la dispersione di dati. È importante soprattutto per il nostro prossimo futuro: abbiamo bisogno per esempio di mappare chi è immune e questo è possibile solo se inseriamo le informazioni in un’unica piattaforma digitale gestita da autorità nazionali o regionali».
Servono donatori per avere più guariti
I test sierologici potrebbero servire anche per identificare i potenziali donatori. Il sangue di chi è guarito dall’infezione in pratica viene purificato e il plasma ottenuto, ricco di anticorpi sviluppati in seguito alla malattia, viene infuso nel malato. In questo modo, il sistema immunitario del paziente viene potenziato, migliorandone le capacità di guarigione. È una delle nuove strade terapeutiche che si stanno sperimentando a livello internazionale.