L’iniziativa britannica
Un sottosegretariato alla solitudine. Proprio di questo si tratta, visto che è un nuovo portafoglio ministeriale all’interno del gabinetto della premier Theresa May. Dovrà occuparsi dei 9 milioni di cittadini britannici che vivono soli o soffrono di gravi problemi di isolamento e, appunto, solitudine. Secondo le indagini, infatti, oltre manica c’è un esercito silenzioso di persone che affrontano una situazione di “solitudine cronica”. Una grande quantità di indagini ne ha dimostrato i nefasti effetti sotto il profilo della salute.
Così la premier May ha incaricato Tracey Crouch, 42enne deputata conservatrice che già detiene le deleghe allo Sport e alla Società civile, del singolare e delicato compito. Che dunque trasforma la solitudine, come alcuni altri temi che riguardano il benessere fisico e quello psicologico, in affare di Stato e di salute pubblica di cui Downing street ha deciso di farsi carico.
La neosottosegretaria intende collaborare con gli altri partiti all’interno di un progetto più ampio che era già stato impostato da Jo Cox, la deputata laburista uccisa nei pressi di Leeds il 16 giugno 2016 da un fanatico di estrema destra che da sempre si occupava di questi argomenti. Era stata infatti la 42enne parlamentare a creare la Commissione contro la solitudine, un organismo che lavora a soluzioni per risolvere quella che è considerata a tutti gli effetti una ferita nazionale. «Jo Cox aveva riconosciuto la vastità del problema a livello nazionale e aveva impegnato tutta se stessa nell’aiuto di quanti ne sono colpiti» ha affermato in un comunicato Theresa May. Aggiungendo che era giunto il momento in cui un ufficiale governativo di alto livello coordinasse una strategia inedita per affrontare il problema.
Più della metà degli anziani in Gran Bretgna vivono da soli
A occuparsi di sostenere la ministra Crouch sarà l’Ufficio nazionale di statistica, che dovrà fornire dati e proposte per combattere la solitudine dei sudditi di sua maestà. «Per troppe persone la solitudine è il modo triste in cui vivono la vita moderna – ha spiegato la premier al momento della presentazione del nuovo progetto – voglio confrontarmi con questa sfida per la nostra società, dobbiamo agire per occuparci dei più anziani e di chi si occupa di loro, di chi ha perso i propri cari, persone che non hanno nessuno con cui parlare o condividere pensieri ed esperienze».
Secondo la Campagna per la fine della solitudine, un’associazione filantropica britannica, più della metà dei britannici sopra i 75 anni vive da sola. E a quasi mezzo milione di cittadini anziani accade di trascorrere anche una settimana senza vedere o parlare con qualcuno. Per questo occorreva un gesto pionieristico, che prendesse di petto quella che Laura Alcock-Ferguson, direttrice esecutiva della campagna, ha chiamato “condizione epidemica”.
Il costo sociale della solitudine
La solitudine non è evidentemente una piaga esclusiva della Gran Bretagna, a cui costerebbe – stando alle deputate Seema Kennedy e Rachel Reeves, copresidenti della Jo Cox Loneliness Commission – 32 miliardi di sterline l’anno. Negli Stati Uniti, per esempio, l’Health and Retirement Study ha dimostrato come il 28% degli statunitensi più anziani viva in uno stato di solitudine cronica. Al netto della conseguenze emotive, le indagini hanno dimostrato che chi passa la propria esistenza in queste condizioni è più soggetto a patologie come ipertensione, problemi al cuore e demenza. Uno studio dell’università della California-Los Angeles, per esempio, ha dimostrato come che vive da solo soffra di elevati livelli di infiammazioni croniche, situazione che apre le porte a un’ampia gamma di problematiche di salute. Per esempio, hanno il 50% in più di possibilità di morte prematura.
Non basta: secondo un’indagine delle università Brigham Young di Salt Lake City e della North Carolina Chapel Hill, l’impatto della solitudine sulla salute equivale a fumare 15 sigarette al giorno. Senza contare il rischio di cadere in depressione, della scarsa cura di se stessi e in generale di precipitare in un circolo vizioso che, secondo alcuni psicologi, col tempo rende perfino complicato tornare a stringere nuove forme di connessione sociale.
La situazione in Italia
La scorsa estate Eurostat ha fornito dei dati sul tema anche per quanto riguarda l’Italia. Sono numeri del 2015, i più recenti al riguardo, e nonostante il nostro sia il Paese delle piazze e della vita all’aperto siamo in testa alla poco lusinghiera classifica: il 13,2% degli italiani sopra i 16 anni sostiene infatti di non avere una persona alla quale, in caso di bisogno, chiedere aiuto. La percentuale più elevata su scala continentale, che sfoggia un valore medio del 6%. Ancora, l’11,9% degli italiani non ha qualcuno – un amico, un famigliare – con cui parlare dei propri problemi personali (in questo caso non siamo i peggiori: in Francia la percentuale è del 17,7%). Non a caso esistono anche iniziative di sostegno come la onlus Telefono Amico.
Un problema che riguarda anche i giovani
«Una decisione interessante, forse utile, dipenderà dalle azioni che sarà in grado di mettere in atto, ma allo stesso tempo campanello d’allarme, probabilmente anche qualcosa in più, della nostra contemporaneità – spiega Alberto Rossetti, psicologo e psicoterapeuta torinese – perché è vero, l’essere umano è oggi sempre più centrato sul proprio Io e quindi anche solo. Gli anziani, per primi, considerati ormai inutili perché non producono più e, in alcuni casi, consumano molto poco. Ma anche, per alcuni versi, i giovani che si sentono sempre più addosso il peso della responsabilità del proprio vivere: ‘Se sbaglio la colpa è solo mia’».
Nessuna stagione della vita, d’altronde, è immune dalla solitudine: «Non è un caso che, tra gli adolescenti, stia esplodendo il fenomeno del ritiro sociale, anche detto “hikikomori” – conclude l’esperto – ragazzi che si chiudono in casa, isolati dal resto del mondo. Il contrasto alla solitudine non può che essere una buona battaglia. Attenzione però a non pensare che basti creare un “ministero” per combatterla: al centro di tutto, che lo si voglia o no, deve tornare la famiglia».
L’importanza delle relazioni umane
Sintesi di tutte queste indagini può essere senz’altro il lungo ed eroico lavoro dello psichiatra statunitense e docente ad Harvard Robert Waldinger, durato oltre 75 anni, che ha scovato la ricetta di una vita serena, soddisfacente (e in salute) proprio nella relazione con gli altri. In un apprezzatissimo intervento al celebre ciclo di conferenze Ted lo scienziato ha illustrato l’indagine che, dal lontano 1938, ha coinvolto un gruppo di 724 persone con questionari ed esami ogni due anni. Il risultato? «Il messaggio più chiaro che otteniamo da questo studio è che le buone relazioni ci mantengono felici e più sani. Punto» ha sentenziato Waldinger.