«Bastano dieta e sport. E vedrà che starà meglio». «Beva di più e le gambe dimagriranno». «Ma quale malattia! Provi a farsi fare qualche linfodrenaggio e i risultati non tarderanno ad arrivare». Sono queste alcune delle tante, troppe frasi che Margherita, 35 anni, toscana di Sansepolcro, si è sentita dire per anni prima di arrivare finalmente a una diagnosi corretta della sua malattia: lipedema. Una parola che fa paura perché identifica una patologia cronica e degenerativa di cui al momento si sa poco. «Me lo ricordo benissimo il giorno in cui ho sentito per la prima volta questo nome. Era il 2019 e a parlarmene è stato il fisioterapista Livio da cui ero andata per un problema alla schiena» racconta Margherita, con un viso sereno ma che d’improvviso si vela di lacrime.

Certo, questa malattia colpisce le gambe, ma colpisce soprattutto l’anima, l’autostima, la psiche. «Erano anni che cercavo una risposta al male che provavo alle gambe. Erano anni che spendevo soldi inutilmente tra massaggi, visite e medicine. Erano anni che volevo che qualcuno mi dicesse che non ero pazza, che non era un mio capriccio, che non era colpa solo del mio corpo a pera. E quando quel qualcuno ha dato un nome all’incubo che stavo vivendo, per me è stato croce e delizia: perché finalmente ho capito di avere un problema, ma nello stesso tempo ho scoperto che al momento per questa patologia non esiste una cura» racconta.

Cos’è il lipedema

La vicenda di Margherita non è un caso isolato. Anzi, è una storia comune a molte donne, malate invisibili. Una storia fatta di lacrime, di solitudine, di milioni di istanti di tristezza, rabbia, insicurezza che si cristallizzano e ti fanno sentire colpevole, sbagliata, mai all’altezza. «La malattia, anche se poco conosciuta e spesso confusa con altre patologie come il linfedema o l’obesità, colpisce tra il 5 e l’11% della popolazione femminile mondiale. Significa che più di 200 milioni di donne devono fare i conti con questa patologia del tessuto adiposo sottocutaneo che causa un’anormale distribuzione del grasso, soprattutto nella parte inferiore del corpo, piedi e caviglie esclusi» spiega Domenico Corda, specialista in medicina riabilitativa e linfologo.

Come si manifesta

«Mese dopo mese vedevo le mie gambe trasformarsi. Certo, non sono mai stata magrissima, ma sentivo che nel mio fisico c’era qualcosa che non andava. Per tutto lo sport che facevo e per quello che mangiavo sarei dovuta pesare 50 chili» spiega Margherita, accarezzandosi le gambe che adesso non riesce più a far entrare in molti pantaloni che ha sempre portato. «Diventavano sempre più grosse, “a colonna”, le sentivo calde, a volte bollenti, se mio marito le sfiorava io saltavo dal dolore, e pian piano notavo anche degli strani rigonfiamenti sotto al ginocchio». «Quei rigonfiamenti, spesso molto dolorosi, sono un accumulo di cellule adipose “impazzite”, non un ristagno di liquidi come succede nel linfedema. Ed è per questo che i massaggi linfodrenanti non servono se non vengono inseriti in un contesto terapeutico più ampio» spiega Sandro Michelini, presidente di Italf (Italian Lymphedema Framework).

Una malattia difficile da curare

Il grasso lipedematoso ha un’altra caratteristica che lo rende difficile da sconfiggere, se non con trattamenti chirurgici molto invasivi e spesso non del tutto risolutivi come la liposuzione. «Quelle cellule adipose non rispondono alla dieta ipocalorica perché alla base c’è un’infiammazione del tessuto» spiega il dottor Corda. Questo vuol dire che le donne affette da lipedema, sia che siano in sovrappeso sia che siano normopeso, anche se fanno diete rigidissime non perdono un solo grammo nelle gambe, ma diventano scheletriche nel busto. Allora qual è la terapia per questa malattia che, oltre a essere causata da alterazioni genetiche, ha anche una componente ormonale?

Dieta, sport aerobico e calze a compressione

«Le cure che al momento funzionano sono 3: bisogna seguire una dieta antinfiammatoria e fare attività fisica di tipo aerobico per eliminare l’acidosi dei tessuti. E poi c’è la compressione, che è un potente antinfiammatorio. Si indossano calze speciali fatte su misura che comprimono le gambe nei punti giusti» spiega il dottor Corda. Indicazioni che Margherita, da quando le è stata diagnosticata la malattia in fase avanzata, segue con una costanza e un rigore assoluti. Ma che non sempre sono facili da mettere in pratica. «Quelle calze sono miracolose, è vero. Però infilarle, soprattutto per me che soffro di mal di schiena, è molto faticoso. E poi sono pesantissime e per niente femminili: di questa stagione fanno quasi piacere, ma indossarle quando arriva il caldo è praticamente impossibile» ci racconta. E in questi mesi in cui siamo ripiombati nell’emergenza coronavirus, con le palestre e le piscine di nuovo chiuse, anche fare movimento fisico diventa un’impresa.

Oltre ai disagi, però, chi soffre di lipedema ha un altro ostacolo da superare. Perché, pur creando disabilità fisica e psicologica, questa malattia non è stata ancora inserita nei LEA (Livelli essenziali di assistenza). In poche parole, le ammalate devono pagarsi tutti i trattamenti e le operazioni di tasca propria (e parliamo di interventi che costano anche 20 mila euro) perché il Servizio sanitario nazionale non rimborsa nulla. «In questi anni ho speso un sacco di soldi. Prima per le terapie sbagliate, come i linfodrenaggi. Poi, dopo la diagnosi, per le calze che costano circa 500 euro al paio» aggiunge Margherita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto il lipedema come condizione clinica nel 2018 e questo riconoscimento diventerà effettivo da gennaio 2022. «Ma prima di quella data si spera di riuscire a fare rientrare la malattia nei LEA» afferma Sandro Michelini. Sarebbe un bel risultato. Un traguardo che a inizio di quest’anno sembrava lontanissimo ma che adesso, per fortuna, appare più vicino.

È una malattia genetica

Merito anche di una scoperta scientifica, fatta a inizio settembre. «Finalmente siamo riusciti a individuare il primo gene che, mutato, causa il lipedema» spiega Sandro Michelini, che ha partecipato a questo studio. Ovviamente siamo solo all’inizio perché questa malattia è causata da più alterazioni genetiche. Basti pensare, per esempio, che gli studi sul linfedema hanno individuato ben 36 geni mutati. Quanti sono quelli che caratterizzano il lipedema non si sa, però la scoperta del primo, l’AKR1C1, è un passo importante. Per diversi motivi. «Perché così si è dimostrato che è una malattia genetica e perché questo studio può aiutare lo sviluppo di una terapia farmacologica che si spera possa arrivare nei prossimi 10 anni» spiega Michelini. Ma non solo. «L’individuazione del primo gene potrebbe fornire un nuovo impulso al giusto riconoscimento, da parte delle istituzioni» auspica Valeria Giordano, presidente della LIO (Lipedema Italia Onlus) e ammalata. E magari potrebbe essere di aiuto per creare un test genetico da fare alle ragazze, prima della pubertà. Perché l’importante, oltre a trovare il farmaco giusto, è diagnosticare la malattia in modo tempestivo. «Quando la dottoressa mi ha detto che avevo il lipedema e mi ha mostrato delle foto ho avuto un flash: mia nonna paterna, con le sue gambe giganti, probabilmente soffriva di questa malattia. Ma nessuno gliela aveva mai diagnosticata» ricorda Margherita. Tutta sofferenza che potrebbe essere evitata con gli esami giusti e una diagnosi precoce. «Ho preso in cura bambine di 8 anni che ora sono donne di 35, con magari dei figli. Stanno bene e le loro gambe sono belle» conclude Corda. Un sogno che anche Margherita spera si avveri.

L’associazione che aiuta le ammalate

Si chiama LIO (Lipedema Italia Onlus) ed è l’associazione nazionale dei pazienti affetti da lipedema. Attiva dal 2016, con circa 350 iscritti, fino a oggi ha aiutato e seguito più di 2.000 ammalate. Per farlo, i membri si impegnano a tradurre tutti i materiali divulgativi sulla malattia e segnalano siti affidabili e società scientifiche che si occupano di patologie RAD (RareAdiposeDisorders). L’associazione è anche attiva nell’organizzazione di corsi di formazione, gruppi di supporto e autoaiuto, oltre che attività di ricerca presso strutture mediche. Svolge inoltre assistenza sanitaria per le pazienti indirizzandole precocemente a cure e specialisti appropriati, fornendo la possibilità di accedere alle opzioni terapeutiche più aggiornate
e di partecipare a protocolli sperimentali.