Ho avuto colleghi musulmani quando lavoravo in Francia in una televisione. È successo più di 10 anni fa.

C’erano giornalisti e giornaliste da Tunisia, Marocco, Sudan, Francia (Paese con milioni di islamici).

Fathma, di famiglia marocchina molto benestante, sempre vestita con un tailleur dalla gonna corta, mi prese in simpatia perché ero nato a Venezia, città sentita come molto vicina dal mondo musulmano. E per farmi un regalo, un giorno scrisse a grandi lettere arabe la parola al-bundukiyya, che significa appunto: Venezia. Più che una scritta sembrava un disegno dove i simboli erano linee curve, linee spezzate, punti più o meno grandi, i tratti a volte spessi e a volte sottilissimi, con molti colori diversi, sul solco della tradizione della calligrafia musulmana. Ho imparato che la parola nell’Islam conta più dell’immagine, e le ruba la scena.

Ricordo una ragazza tunisina, anche lei con lunghi capelli sciolti, sposata a un medico. Un giorno a pranzo mi raccontò che aveva voluto mettere alla prova il consorte facendo finta di essere rimasta incinta. Le interessava sapere come lui avrebbe reagito alla notizia dell’arrivo di un bebé. E siccome lui era stato felicissimo e si era messo a telefonare agli amici per invitarli a fare festa insieme, lei aveva superato i dubbi e aveva deciso di provare a diventare mamma il prima possibile. Mi era piaciuto questo quadretto di intimità coniugale. Del tutto simile a una famiglia italiana.

Ho imparato anche a non fare certe gaffe. «Non devi mai salutare un musulmano con la mano sinistra, la mano impura», mi ha detto un collega del Sudan. «Questo devo proprio ricordarmelo» mi dissi mentalmente. Paese che vai, tabù che trovi.

E poi c’era un altro giornalista, molto chiacchierato. Dicevano che aveva contatti con un regime islamico. Era una maldicenza. Ma è servito a farmi capire che erano poche le nazioni islamiche ad avere un sistema democratico. E a ricordarmi che negli Stati autoritari, l’informazione giornalistica viene tenuta rigidamente sotto controllo. Ed ancora è così, 10 anni dopo quella mia istruttiva esperienza in Francia.

E c’era il tempo libero. Una volta sono stato invitato a una festa in casa di fanciulle islamiche nella periferia della città, non una degradata banlieue parigina ma un sobborgo come quelli intorno alle città italiane, con villette a schiera e piccoli giardini. Fecero così tanto rumore che alla fine arrivò una pattuglia della polizia, chiamata dai vicini di casa, a controllare cosa fossero quegli schiamazzi. Tipo la canzone Sabato di Lorenzo “Jovanotti” Cherubini. Ero molto giovane. E ho capito che i ragazzi e le ragazze musulmane erano uguali a noi europei. A volte, ERANO europei (perché nati qui). Che cosa sia successo da allora, con la “conversione” di alcuni musulmani all’Islam radicale, proprio non lo capisco.

P.S: Ma ho provato a indagare. Nel numero di Donna Moderna ora in edicola c’è una lunga inchiesta sugli islamici nelle città italiane.