A volte, nei momenti di maggiore lucidità (sua, ma in fondo anche mia) mi piace chiacchierare con mia madre come facevamo tanto tempo fa.
Confesso che non abbiamo mai avuto un grande dialogo, e forse nemmeno un dialogo vero e proprio, ma anche da ragazzo mi piaceva a volte ascoltarla raccontare vecchie storie di famiglia, o della sua giovinezza, perdute ormai dietro le quinte del tempo. Storie di cinquanta, sessanta, persino settanta e più anni fa.
Lei ormai ne ha novanta, e da alcuni convive con quell’ospite imprevedibile e a volte prepotente e scostumato che è l’Alzheimer. Ma il piacere di raccontare le è rimasto.
Una volta mi ha raccontato del suo giro per le gallerie sotterranee di Napoli (del tutto inventato), un’altra di certi corteggiatori di anteguerra, e un’altra ancora di innocenti bravate compiute nell’infanzia insieme alla sua sorella del cuore, Lina, che non c’è più da anni, ma con la quale lei è convinta di sentirsi al telefono quasi tutti i giorni.
Finché, l’altro giorno, è accaduto un fatto nuovo, che mi ha spiazzato completamente.
«Racconta» le ho detto, rendendomi conto che aveva voglia di parlare.
Lei mi ha guardato con quel suo sguardo da vecchia tartaruga: «Scusi, lei li conosce i miei figli?».
«No…» ho risposto io, d’istinto.
E allora lei s’è messa a parlare proprio di me e di mio fratello: eravamo noi, stavolta, il tema del suo racconto. E il mio imbarazzo si è trasformato quasi subito in lieve apprensione.
Perché, vedete, l’Alzheimer è bugiardo, e a volte persino cattivo, ma è anche come il vino. In Alzheimer veritas, si potrebbe dire. Perché il malato, se in quel momento è lucido e in contatto con se stesso, e formula un pensiero compiuto, potete star certi che vi dirà quello che pensa senza peli sulla lingua.
«Quanti figli ha?» le chiedo affabilmente, per capire il suo grado di lucidità.
«Due» sorride lei.
Mi faccio dire i nomi, l’età, e lei azzecca tutto. È davvero in sé e, quello che pronuncerà, sarà un giudizio senza appello.
Mi parla per un po’ sia di me sia di mio fratello. Sento che il discorso scorre bene, e che ormai va a parare in un punto preciso. Tra poco riceverò il responso, e mi sento come uno scolaro davanti alla maestra a scuola.
Che voto merito? Che figlio sono stato e sono? Che cosa pensa, insomma, di me mia madre?
Le madri a volte ci conoscono meglio di noi stessi. Non hanno neanche bisogno di capirci. Loro “ci sanno” come si direbbe in napoletano, con un’espressione che in italiano suona un po’ sgrammaticata ma che descrive il concetto alla perfezione. Non è conoscenza, ma scienza innata quella con cui una madre “sa” il proprio figlio.
Faticosamente, con domande sempre più concentriche, la spingo verso quel giudizio. Ma sento che si sta perdendo, e fremo per arrivare a una conclusione prima che la sua mente vacilli.
Voglio che mi dica se sono stato un bravo figlio o meno. Se c’è qualche difetto che, pur senza dirmelo, ha notato in me. Se in qualche cosa, senza nemmeno rendermene conto, con quella goffaggine distratta che è tipica dei figli, l’ho delusa.
«E allora, di Flavio, che cosa mi direbbe» le domando apertamente «se dovesse descriverlo con una parola sola?».
«Flavio?» ripete lei, e socchiude gli occhi.
«Flavio» confermo io.
«Be’» fa lei, e la sua espressione diventa indecifrabile. Sorride ma in fondo senza sorridere, ha un’aria perplessa però anche sicura, sembra esitare, poi al contrario sembra che stia per lasciarsi andare alla franchezza più assoluta, e infine, sospettosa, mi chiede: «Ma… Flavio, chi?».
Io sospiro. L’attimo di lucidità è passato. Mia madre è tornata nel suo mondo, e cosa pensa di me, per questa volta, non me lo dirà.
Squilla il telefono. Mi assento un attimo e subito torno da lei.
Appena mi vede, mi riconosce e s’illumina: «Flavio!» esclama.
«Mamma…».
«È venuto un tale qua, prima, e mi ha fatto un sacco di domande. Voleva sapere di te, di tuo fratello… Ma io ho capito subito che era troppo curioso, e allora sai che ho fatto?».
«Che hai fatto, mamma?».
«Ho fatto finta di essere una scimunita che non si ricorda niente!» risponde. E adesso è così decisa che i suoi occhi di tartaruga sembrano quelli di una tigre: «Non gli ho risposto, a quello là, perché non si può mai sapere: io non parlo dei miei figli con gli sconosciuti!».
Per l’ennesima volta, mamma, mi hai dimostrato l’incontenibile immensità del tuo cuore: persino l’Alzheimer riesci a usare, se serve a difendere i tuoi figli. Buoni o cattivi che siamo, non importa. Il tuo giudizio è sempre lo stesso: ci ami senza condizioni, e niente più.
Lo scrittore Flavio Pagano ha cominciato a occuparsi di Alzheimer quando la malattia ha toccato la sua vita, colpendo la madre, esperienza da cui è nato il romanzo-verità Perdutamente (Giunti). Questo è il sedicesimo intervento di una serie, “Mai soli”, che vuol raccontare e ascoltare l’universo parallelo che è l’Alzheimer. L’universo di coloro che ne sono colpiti e di chi li assiste, perché curare vuol dire prima di tutto prendersi cura dell’altro.
Le altre storie:
1. Il giorno che mia madre non mi ha riconosciuto
2. L’istituto dove i pazienti si sentono a casa
3. Accanto a chi è malato fino all’ultimo respiro
4. La mia mamma malata mi ha accompagnato all’altare
5. La nonna che non ricorda mai che giorno è
6. Quando si arriva a dire: «Non ce la faccio più»
7. Com’è vivere accanto a chi c’è ma non c’è più
8. Perché la casa di riposo fa paura
9. Alzheimer, prevenirlo (un po’) forse si può
10. L’Alzheimer è un ladro bastardo (ma misericordioso)
11. Anche un sogno aiuta a stare meglio
12. La casa dove i nonni tornano bambini
13.Il ruolo eroico delle famiglie dei malati
14. Innamorarsi a 90 anni si può
15. Quel Natale lontano della mia mamma