Qualche giorno fa, il rientro a scuola. L’ennesimo. Nell’altalena emotiva di questo anno straordinario, l’ultima notte prima della zona arancione è stata la più faticosa per la Dodicenne. L’ho vista vagare per casa in preda a un’ansia inedita. Una preadolescenza che si stava tessendo dentro il guscio protetto della sua cameretta, improvvisamente costretta a venire allo scoperto.
Mi sono ricordata di quale atto di coraggio sia ogni giorno svegliarsi, vestirsi, uscire di casa e affrontare le persone, le relazioni, la vita. Un gesto che facevamo senza accorgercene ma non senza difficoltà. Di cui improvvisamente, in una domenica sera di aprile, la mia piccola donna si è vista recapitare il conto. Dopo un anno di lezioni di danza davanti a uno schermo senza che nessuno guardasse il suo corpo, dopo mesi di amicizie e amori vissuti all’ottocentesca, con un epistolario immediato e incessante quale può essere una chat, dopo settimane di verifiche sui moduli di Google, di colpo, dalla sera alla mattina, il ritorno al confronto diretto con gli altri.
Ma c’è qualcosa di più nel malessere di questo nuovo inizio. Ho provato a mettermi nei suoi panni e a immaginare che qualcuno mi dica: da domani la tua vita riprende com’era un mese o un anno fa. Perché è questo che vivono i nostri ragazzi: un continuo andirivieni tra una pallida copia della vita di prima e degli intervalli di sospensione più o meno lunghi. Io proverei un forte disagio, dettato dalla percezione di aver perduto il tempo di mezzo e di dover ricominciare da dove ci eravamo lasciati l’ultima volta. Tutti abbiamo bisogno di sentire che andiamo verso qualcosa. Di credere che il tempo non sia passato invano.
Tornare in una scuola dove l’unica cosa che è cambiata sono loro, gli studenti, ciò che provano, come si sentono, è quanto di più sbagliato. Credo che molti professori illuminati lo stiano facendo autonomamente, ma non sento un dibattito in questo senso, a parte un bell’intervento di Chiara Saraceno di qualche giorno fa su La Stampa. Mi piacerebbe una scuola che a ogni rientro accolga i ragazzi con una didattica nuova, capace di valorizzare l’autonomia di studio sperimentata in Dad e focalizzata ad allenare l’autonomia relazionale, fortemente atrofizzata in questo anno.
Vorrei una scuola dove venga riconosciuta la fatica che ogni ragazzo fa a portarsi dietro il proprio corpo, il carico di paure e insicurezze a esso legato. E che trasformi questa consapevolezza in uno strumento sopraffino di comprensione e analisi del mondo. Vorrei una scuola a cui la politica riconosca il compito straordinario che ha. E insegnanti pagati e considerati giustamente per la missione che affidiamo loro: far sì che questo non sia davvero un anno perduto per i ragazzi.