Devo essere sincera, il tatto non è mai stato il mio senso preferito: troppo personale, a tratti decisamente “invadente”, forse troppo intimo. Quindi, quando più di un anno fa la pandemia lo ha reso un tabu, per me non è stato scioccante. Da qualche tempo, però, mi sono resa conto che inspiegabilmente mi manca. Mi manca quella sensazione unica, dolce, appagante. Perché, in realtà, il tatto è la prima “lingua” che impariamo, è un amico caro, fedele, su cui possiamo fare sempre affidamento, che ci tranquillizza quando abbiamo paura e ci fa sorridere quando siamo di buon umore. E a dirlo non sono io, ma la scienza. I feti sono ricoperti da una peluria sottile che compare intorno al quarto mese di gravidanza e che, come alcuni ricercatori sostengono, amplifica le piacevoli sensazioni provocate dal liquido amniotico, anticipando l’effetto che il bambino proverà quando sarà abbracciato. Un tocco sulla pelle, poi, riduce la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, i livelli di cortisolo e facilita il rilascio di ossitocina, ormone che tranquillizza e rilassa.

Il tatto ci fa stare con i piedi per terra

Che il tatto sia fondamentale, non solo fisicamente ma anche psicologicamente, lo conferma Martina Ferrari, psicologa in training psicoanalitico presso la Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione: «L’abbraccio, il contatto fisico, è il primo senso attraverso il quale incontriamo il mondo, quello con cui impariamo a conoscerlo, che ci permette di stare in relazione con gli altri. È il simbolo di inclusione e condivisione delle nostre emozioni più profonde» spiega l’esperta. Ma non solo. «Il tatto è qualcosa di ancestrale, potente, ed è indispensabile al nostro equilibrio mentale. La stimolazione della pelle aiuta il cervello a distinguere il sogno dalla realtà, la verità dalla finzione» spiega il professor Fabio Sbattella, docente di Psicologia delle emergenze dell’università Cattolica di Milano. «Il tocco ci fa sentire vivi, ci aiuta a stare con i piedi per terra, a superare le nostre paure, le nostre angosce. Avete presente quando un bambino piange disperato e basta un abbraccio della mamma a farlo calmare, a farlo uscire, cioè, da quell’incubo in cui si è perso momentaneamente?». Ecco, a tutti noi quell’abbraccio, quella stretta di mano, quella carezza sono mancati da morire. E, adesso che i contagi sembrano scendere e le restrizioni ammorbidirsi, ne abbiamo fame, voglia, bisogno.

Cos’è la touch crisis

Gli scienziati hanno dato un nome al malessere che in questi mesi ci ha colpiti: “Touch crisis”, crisi del contatto fisico. «Stiamo collettivamente avvertendo l’astinenza da deprivazione tattile: la sindrome del contagio e il legame che c’è stato tra il contatto fisico e la malattia o, peggio, la morte hanno allontanato il corpo degli altri, fuori dal raggio d’azione delle nostre braccia» spiega la psicologa Martina Ferrari. Con la rarefazione del contatto, del calore umano, delle interazioni sociali, tutto è diventato più freddo, asettico, opaco. Un processo che ha ridefinito e riorganizzato, dal punto di vista emozionale e non solo, la convivenza sociale. Ci siamo illusi che sarebbe bastato il 4G a farci sentire vicini gli altri esseri umani. Ma l’impossibilità di toccare i corpi altrui ha aperto dentro di noi un baratro, un dolore profondo. I nostri polpastrelli hanno imparato ad accarezzare schermi, a fare “tap” e “swipe up”, ma adesso, dopo tanti mesi, ci chiediamo se saremo ancora in grado di distinguere tra le molteplici sfumature che può avere una carezza o una stretta di mano. «Da una lato, c’è un grande desiderio di tornare a toccarsi, per sentirsi vivi, per sentirsi di nuovo liberi. Dall’altro, resta comunque una grande paura. Paura del contagio sicuramente, ma soprattutto paura di lasciarsi andare, di ricominciare a sentire quelle emozioni forti che, magari, tra qualche mese ci verranno di nuovo proibite» dice Ferrari.

I contatti diventeranno più rari

Quello che è certo è che adesso la dimensione corporea deve rientrare nella nostra vita. «E lo farà pian piano, in modo diverso da prima, trovando nuove strade» assicura il professor Sbattella. «Le modalità di contatto, come molte regole sociali, secondo me cambieranno. E noi dovremmo imparare una nuova “lingua”, senza forzature, senza fretta, vincendo a volte un’iniziale sensazione di estraneità. I contatti diventeranno più rari ma per questo anche più preziosi, più incisivi, più profondi». Insomma, saranno di meno ma più belli: se ti do un abbraccio adesso, vuol dire che proprio ti voglio abbracciare. Se ti stringo la mano, vuol dire che proprio voglio presentarmi a te. Il contatto fisico è abbracciarsi, sfiorarsi la spalla ma, anche, essere vicini fisicamente, varcare la soglia della prossimità: proprio quel confine che con il distanziamento dovuto e necessario è diventato per tutti noi un muro invalicabile. «Sì, perché in questi mesi, oltre a non toccarci, dovevamo stare a un metro di distanza» aggiunge Sbattella.

La comunicazione non verbale oggi ha troppi filtri

Una doppia sofferenza. «Noi uomini siamo abituati al fatto che le relazioni siano per la maggior parte faccia a faccia. Quando ci incontriamo, il nostro corpo spesso parla al posto nostro tramite i gesti, le espressioni. La comunicazione non verbale serve a rinforzare, a dare un significato più preciso a quello che stiamo dicendo, a far sì che il messaggio e le emozioni arrivino a destinazione. A causa delle mascherine e degli schermi di computer e cellulari, oggi la nostra comunicazione ha troppi filtri. Ed è anche questo tipo di contatto, intimo e profondo, quello che ci manca» conclude Fabio Sbattella. Ma se il contatto fisico mi manca, ci manca, è anche per un altro motivo: è indissolubilmente legato al concetto di cura. Occuparsi di un altro essere umano significa quasi inevitabilmente toccarlo: dai bisogni primari come fargli il bagno e vestirlo agli scambi tattili più “espressivi” che hanno lo scopo di comunicare, confortare, amare. Io ho deciso: voglio tornare a sentire il potere degli abbracci, che saranno meno ma più “pesanti”, di quel peso che alleggerisce tutte le nostre sofferenze. Perché, come ha scritto Alda Merini, «ci si abbraccia per ritrovarsi interi».