I turisti di rientro da Spagna e Sardegna in coda negli aeroporti, i migliaia di italiani bloccati in casa o in albergo in attesa della chiamata per il tampone, le paure di chi ha scoperto di aver viaggiato accanto a un positivo. La cronaca delle ultime settimane ci ha fatto toccare con mano quello che i virologi ci dicono da tempo: saremo capaci di bloccare una seconda epidemia di Sars-CoV-2 solo se potremo testare e tracciare a tappeto le persone esposte al contagio. Tutte e in poco tempo.
È la ragione per cui ovunque si sperimentano nuovi esami rapidi, che eviterebbero di ingolfare laboratori e taglierebbero le liste d’attesa. Alcuni di questi test sono già in uso nel Lazio e in Veneto mentre la Lombardia – spiegano dalla Regione – non li ritiene per ora sufficientemente affidabili. «Abbiamo il problema di gestire il più in fretta possibile tutte le situazioni a rischio, per evitare che ci sfuggano di mano. Avere diagnosi veloci e sufficientemente attendibili è l’unico modo per non perdere il controllo dei contagi» avverte Vittorio Sambri, direttore dell’Unità operativa di microbiologia dell’Ausl della Romagna, che coordinerà una ricerca per mettere alla prova 5 tipologie di tamponi rapidi. I più efficaci saranno validati e utilizzati In Emilia Romagna a partire da ottobre per testare i pazienti prima del ricovero o al Pronto soccorso.
Ma sul campo restano anche i test sierologici, a cui in questi giorni si stanno sottoponendo gli insegnanti e il personale scolastico. Vediamo allora di fare chiarezza sugli esami che puoi fare adesso e su quelli che probabilmente arriveranno.
Covid: il tampone “classico”
Il tampone è l’esame di riferimento per accertare la positività al virus e il solo a poter conferire una patente di guarigione. Viene eseguito in Asl e ospedali, a carico della sanità pubblica (ma in alcune Regioni si può fare a pagamento anche nei laboratori privati). Lo conosciamo, è un bastoncino da infilare nella narice e nella faringe per prelevarne le secrezioni. Il campione viene portato in laboratori specializzati per la ricerca dell’Rna del virus, eseguita attraverso la tecnica “Rt-Pcr”, una metodologia che permette di far replicare l’eventuale virus presente finché non diventa rilevabile.
«Per questa ragione l’esame può scovare anche chi ha una bassa carica virale. Nonostante ciò, ha un tasso di falsi negativi fino al 30%. Molto dipende dalla capacità dell’operatore di prelevare il giusto quantitativo di secrezioni» spiega Lorenzo Azzi, ricercatore di patologie del cavo orale all’università dell’Insubria. Il maggiore difetto sono però i tempi di lavorazione. Il processo in sé richiede 6-8 ore, 12 al massimo, ma si è visto che per l’esito si possono attendere anche 2 giorni.
I tamponi antigenici
I tamponi antigenici sono quelli che abbiamo visto usare anche negli aeroporti veneti e romani, al Porto di Civitavecchia e negli ospedali pubblici e drive in del Veneto. Questi test sono stati validati dall’Istituto Spallanzani su richiesta del ministero della Salute e presto il Lazio li estenderà nei drive in. Sono kit economici e veloci, con un tampone e una provetta che cambia colore in caso di esito positivo. Il responso arriva in 15 minuti, il costo per il pubblico si aggira intorno ai 12 euro.
«Non cercano il patrimonio genetico del virus, ma una proteina che è sulla sua superficie. I test antigenici non sempre riescono a individuare i pazienti con una carica virale bassa, ma bisogna considerare che questi stessi pazienti hanno poca probabilità di infettare gli altri» spiega Sambri. «Usati sui grandi numeri, pensiamo a chi deve essere ricoverato, o una scuola dove ci sono casi di positivi, permettono comunque di intercettare subito i “grandi diffusori” (persone in grado di infettarne molte altre ndr)».
In Liguria e Veneto oggi è già possibile per i privati sottoporsi a questi tamponi veloci nei laboratori, a pagamento, ma a un costo che parte da circa 40 euro e può arrivare a 90.
I test rapidi della saliva
Un test di questo tipo è stato da poco approvato dal Fda negli Stati Uniti, in Italia è stato messo a punto dall’Università dell’Insubria: il prototipo dovrà essere validato e valutato dal ministero della Salute. Il meccanismo d’azione è analogo a quello dei tamponi antigenici, perché si va a ricercare la proteina di superficie del virus, ma a cambiare è la modalità di prelievo. Il kit ha l’aspetto di un test di gravidanza: basta depositare un campione di saliva sulla striscia di carta, che si colora a contatto con la proteina del virus. «Si evita così il fastidioso tampone, che necessita di personale addestrato, perché per prelevare la saliva bastano una pipetta e pochi minuti» spiega Sambri. Anche in questo caso, se arriverà l’ok del ministero, i kit potrebbero essere usati per esaminare grandi quantità di persone.
Gli esami sierologici
L’esame sierologico si presenta come un esame del sangue o un kit “pungi dito”. Nel primo caso il risultato arriva entro qualche ora, nel secondo in pochi minuti e ormai in tutte le Regioni si può eseguire a pagamento in laboratori autorizzati, il più delle volte con una prescrizione medica. Con il sierologico si vanno a cercare gli anticorpi specifici del virus e la loro presenza ci dice se abbiamo avuto un contatto recente con il virus (IgM), e quindi potremmo essere infetti, o se conserviamo la memoria di un contatto passato (IgG). In entrambi, se il test è positivo è obbligatorio sottoporsi a tampone.
Più affidabili e sensibili sono gli esami del sangue che hanno però un costo tra i 50 e i 100 euro contro i 25-50 dei pungidito. Tutti hanno però un limite evidente, e cioè individuano l’infezione solo 7-10 giorni dopo il contatto, quando abbiamo sviluppato già gli anticorpi. Se il contagio è recente, falliscono per definizione. Sono comunque preziosi per screening su grandi gruppi, dove fare il tampone sarebbe impensabile.
Ma chi sono i grandi diffusori?
«Immaginate una tovaglia a pois. E poi una tovaglia bianca con delle macchie di vino rosso. La prima rappresenta l’influenza stagionale, che si propaga in maniera omogenea. La seconda il virus Sars-CoV-2. Compare qua e là, con cluster e focolai, per poi “sparire”, ma solo apparentemente, e tornare altrove. Rispetto al virus stagionale con un numero basso di eventi il covid determina tanti contagi». Antonella Viola, immunologa e docente di patologia generale all’Università di Padova, spiega con questa immagine la teoria dei “grandi diffusori”, di cui tanto si discute in queste settimane. Pochi soggetti, anche asintomatici, che potrebbero infettare più persone.
«Quello che la scienza non è ancora in grado di stabilire è se il superdiffusore esista davvero, abbia cioè particolari caratteristiche genetiche o biologiche. O se siano occasioni particolari, come quando si parla ad alta voce, si sta vicini, si canta, a causare i cluster». In pratica, sostiene l’immunologa, potrebbero non esistere i superdiffusori ma gli eventi che determinano una superdiffusione del virus. Le certezze, però, sono assai poche in questo campo. «Anche perché è difficile stabilire in assoluto quale sia il potere infettante di una persona positiva, visto che la carica è massima nei primi giorni, per poi calare man mano che la persona sviluppa gli anticorpi».