Li chiamano i “guariti positivi”. Tra gli ultimi casi in ordine di tempo ci sono quelli di Cristiano Ronaldo, risultato positivo al secondo tampone in uscita, e Federica Pellegrini che, nonostante si senta bene, è risultata «lievemente positiva» al tampone. Lo sconforto di entrambi è diventato virale, ma non si tratta degli unici casi del genere. Secondo una ricerca del Policlinico Gemelli di Roma e dell’Università Cattolica pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine, una persona guarita da Covid su 5 (16,7%) rimane positiva per alcune settimane. Come può accadere?
Perché si rimane positivi?
Ci si ammala, si trascorre il periodo di isolamento, man mano i sintomi scompaiono: niente più mal di gola, mal di testa o febbre. Ci si sente pronti al tampone in uscita, ma questo risulta positivo, quindi scattano altri 7 giorni di isolamento. Nel frattempo si migliora ulteriormente, insomma ci si sente bene, eppure anche il secondo test dà esito positivo, quindi si deve restare a casa. Come è possibile? «Accade perché lo strumento che viene utilizzato, cioè il tampone, non è preciso, non è in grado di quantificare o discriminare la presenza del virus. In pratica, può risultare positivo perché rileva non tanto del virus, ma di un po’ di acido nucleico del virus, ma non è detto che si tratti di una particella infettante. In altre parole, anche se il tampone molecolare desse un esito positivo potrebbe essere che la parte di virus trovata sia inattiva (dunque morta) o insufficiente a infettare» spiega Giorgio Palù, tra i fondatori della Società italiana di Virologia, membro della Società europea di Virologia ed ex direttore del Dipartimento di Biologia Molecolare dell’Università di Padova.
«Sappiamo da almeno due studi condotti in vitro, in linea con altri lavori, che l’infezione è possibile quando troviamo almeno 1 milione di genomi equivalenti: oggi non abbiamo un test che possa quantificare questo aspetto» aggiunge l’esperto.
I positivi sono malati oppure no?
La domanda che si pongono in molti, quindi, è se una persona positiva sia da considerarsi ammalata oppure no? È in grado di contagiare altre persone con cui venga in contatto? «La prima precisazione riguarda il termine con cui si indicano le persone positive al tampone. Si parla genericamente di contagi, ma sarebbe più corretto dire infetti, perché il test molecolare trova frammenti del virus in questi soggetti, che dunque sono in qualche modo stati infettati dal Sars-Cov2. Vuol dire che il virus ha infranto le difese dell’organismo e si può replicare. Ma questo non significa che questi soggetti siano contagiosi, quindi capaci di trasmettere il virus ad altri» premette Palù. «Insomma, un positivo non è necessariamente malato, potrebbe essere asintomatico oppure presentare sintomi, ma avere una bassa carica virale che non è in grado di contagiare altri».
Gli asintomatici e la carica virale
Se si presentano sintomi il tampone può confermare la presenza di frammenti del genoma del virus, rendendo necessario l’isolamento fino alla guarigione (se, invece, si è in attesa di essere sottoposti a tampone o si sospetta di essere stati a contatto con persone positive si parla di quarantena). Una volta trascorsi i 14 giorni (o 10, di cui tre senza sintomi) si procede al cosiddetto tampone in uscita che, se negativo, permette di tornare in comunità.
Più complicata, per certi versi, la gestione degli asintomatici. Quanto sono in grado di trasmettere la malattia e quando si possono considerare guariti? «Purtroppo ciò che conta è la carica virale, quindi la capacità del virus di replicarsi, ma non esiste ancora un test che sia in grado di quantificarla. Oltretutto è molto variabile da persona a persona, perché dipende anche dalla risposta del sistema immunitario. Neppure i tamponi molecolari sono in grado di darci indicazioni precise, tant’è che non ne esiste uno validato in base a un criterio standard univoco» spiega Palù.
Per gli asintomatici, quindi, il protocollo stabilisce che si possa interrompere l’isolamento dopo un tampone (negativo) dopo almeno 10 giorni dal primo test positivo.
Lievemente positivi e contagi di lungo termine
Proprio come capitato a Federica Pellegrini, il secondo tampone è risultato ancora «lievemente positivo» quindi non ha permesso alla nuotatrice italiana di interrompere l’isolamento. È già successo che alcuni soggetti siano risultati positivi ai test molecolari anche per diverse settimane, come se la malattia non fosse finita. In realtà, anche in questo caso non si dovrebbe parlare di contagi di lungo periodo, ma piuttosto di «guariti positivi». Cosa fare in questa eventualità? Se il tampone in uscita al 10° giorno (dopo 3 senza sintomi, oppure al 14°, sempre dopo tre giorni senza sintomi) risulta positivo, si deve replicare il test molecolare dopo almeno altri 7 giorni. Potrebbe, infatti, accadere di non avere più febbre, mal di pancia o di gola, ma continuare a non percepire o percepire poco odori e sapori, che sono ritenuti indicatori della presenza dell’infezione.
Se anche il tampone successivo fosse ancora positivo, occorre prolungare ulteriormente il periodo di isolamento, arrivando al 21° giorno. A questo punto, però, la malattia viene considerata conclusa, anche senza un tampone negativo: «Se una persona non ha sintomi dopo 21 giorni sicuramente ha superato l’infezione da un punto di vista clinico. C’è il rischio che risulti ancora positivo al tampone ma, come detto, potrebbe essere dovuto alla presenza di frammenti del genoma inattivi o con scarsa carica virale o ancora falsi positivi che, seppure possibili nel 5% dei casi, non sono da escludere» conclude il virologo. Naturalmente possono esistere variabili individuali, così come può influire lo stato immunitario dei soggetti: negli immunodepressi, ad esempio, il periodo di guarigione è tendenzialmente maggiore.
Tampone negativo, ma rimangono i sintomi
Esiste poi la probabilità che, pur con tampone negativo, rimangano alcuni sintomi della malattia. Secondo lo studio del Gemelli, ci sono diversi casi di persone che, pur guarite clinicamente, continuano ad avvertire malesseri per giorni o settimane. Nel 51% dei casi analizzati, su un totale di oltre 130 pazienti, si continuava ad avvertire senso di affaticamento, nel 44% persisteva la difficoltà nel respiro, mentre nel 17% si continuava a tossire. Trattandosi di sintomi, gli esperti non solo consigliano l’osservanza delle precauzioni anti-contagio (indossare la mascherina, lavare e igienizzare le mani, evitare contatti ravvicinati), ma si prevede di prolungare l’isolamento fino alla loro scomparsa, per poi procedere a ulteriore tampone.