La notizia dà ottimismo in un momento in cui preoccupa la variante Delta: la Commissione europea ha firmato un contratto con l’azienda farmaceutica Glaxo Smith Kline (Gsk) per la fornitura di un farmaco anti-Covid. Si tratta di un anticorpo monoclonale utilizzato in una terapia sperimentale. Fa parte della prima cura di un pacchetto che ne comprende in tutto cinque, annunciate dalla stessa Commissione lo scorso giugno e che sono in arrivo a ottobre.
La ricerca di terapie specifiche contro l’infezione da Sars-Cov2, dunque, prosegue e si affianca ai vaccini, che al momento rappresentano l’unica arma contro il Covid, soprattutto a livello preventivo. Ma cosa accade oggi, a oltre un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, se ci si ammala? Se il coronavirus ha colto di sorpresa la comunità medica, che si è ritrovata senza rimedi contro la malattia, come ci si cura adesso e come ci si potrà curare breve?
Cosa sono i monoclonali e perché sono utili
Ad oggi non esiste ancora un vero e proprio farmaco anti-Covid: nella primissima fase della pandemia i pazienti sono stati curati con medicinali già in uso, a volte “adattandoli” alla malattia data dal virus Sars-Cov2. Col passare dei mesi e con l’aumento delle conoscenze le attenzioni si sono rivolte alla ricerca di farmaci specifici, tra i quali gli anticorpi monoclonali: sono proteine messe a punto in laboratorio, ma che imitano la capacità del sistema immunitario di combattere una malattia o un’infezione. I medici li chiamano “intelligenti”, perché “mirati”: ce ne sono, per esempio, per alcuni tumori, ma anche appunto per il coronavirus. «Gli anticorpi monoclonali per il Covid, agiscono su una parte del virus, la proteina Spike o “S”, impedendone da una parte l’ingresso nella cellula e poi facilitandone l’eliminazione da parte del sistema immunitario. Proprio per questa caratteristica, però, sono efficaci solo nella fase inziale della malattia» spiega Lorenzo Dagna, primario dell’Unità di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Effetti collaterali limitati
Sono utili perché, a differenza di un farmaco tradizionale, hanno effetti collaterali molto limitati pur essendo molto potenti: «Sono come i nostri anticorpi naturali, anche se prodotti in laboratorio. Un farmaco chimico tradizionale come il Remdesivir, utilizzato anch’esso contro il Covid seppure in fasi diverse della malattia, ha invece una sua tossicità che va valutata al momento della somministrazione» chiarisce Dagna.
4 nuove terapie monoclonali
«Ci siamo impegnati nella nostra strategia terapeutica per il Covid-19 ad avere almeno tre nuove terapie autorizzate entro ottobre. Stiamo ora consegnando un secondo contratto quadro che offre ai pazienti trattamenti con anticorpi monoclonali. Accanto ai vaccini, le terapie sicure ed efficaci svolgeranno un ruolo fondamentale nel ritorno dell’Europa a una nuova normalità» ha spiegato la commissaria europea alla Salute, Stella Kyriakides, nell’annunciare un primo contratto di fornitura di un nuovo anticorpo monoclonale, sviluppato dalla Gsk in collaborazione con Vir Biotecnology. Si tratta del Sotrovimab, che può essere utilizzato per il trattamento di pazienti affetti da coronavirus con sintomi lievi che non richiedono ossigeno supplementare, ma che sono ad alto rischio di aggravamento delle loro condizioni. Al momento gli Stati membri attendono, per poter acquistare il monoclonale Sotrovimab, l’autorizzazione all’uso di emergenza da parte dell’Ema, l’agenzia europea per il farmaco, a cui seguirà quella dell’ente regolatore di ciascuno Paese, nel caso dell’Italia da parte dell’Aifa. Anche gli altri monoclonali (bamlanivimab ed etesevimab; casirivimab e imdevimab; regdanivimab) allo studio dovrebbero ottenere l’autorizzazione Ema entro l’autunno.
I monoclonali si usano già in ospedale
In Italia alcuni anticorpi monoclonali sono già in uso sui pazienti ritenuti idonei. Sono efficaci, infatti, solo se somministrati nelle fasi iniziali dell’infezione, tramite infusione in ospedale: «Più si è vicini alla comparsa dei primi sintomi, più è probabile che possano funzionare e farlo molto bene. Si somministrano soprattutto a pazienti che presentano potenziali fattori di rischio (età avanzata, soggetti fragili o con comorbidità) che quindi hanno maggiori probabilità di un decorso più aggressivo della malattia» spiega Dagna.
Quando servono gli immunosoppressori
Nell’annunciare i nuovi protocolli medici, cioè le terapie contro il Covid, la Commissione europea ha indicato anche l’arrivo di un immunosoppressore. «La differenza sta nelle fasi della malattia in cui questo tipo di farmaco viene utilizzato. All’inizio, quando i pazienti sviluppano l’infezione, si cerca di bloccarla per esempio con i monoclonali. Se però non si riesce, può accadere che si verifichi una risposta immunitaria violenta ed eccessiva, tale da diventare aggressiva contro l’organismo stesso. Occorre allora ridurre questa risposta immunitaria utilizzando immunosoppressori, come ad esempio il cortisone – spiega l’esperto immunologo – Occorre fare attenzione alla tempistica: per esempio, si è visto che il cortisone dato precocemente aumenta il rischio di mortalità, mentre nella fase infiammatoria acuta migliora significativamente il quadro clinico perché riduce proprio la risposta eccessiva» chiarisce l’immunologo.
Allo studio un farmaco contro tutte le varianti
Nel frattempo un team di ricercatori dell’Università di Toronto ha analizzato 27 specie di coronavirus e campioni di migliaia di pazienti Covid, arrivando a individuare una sequenza di proteine comuni a tutti. L’obiettivo è quello di mettere a punto un farmaco che sia efficace contro tutte le varianti. Finora, infatti, ci si è concentrati principalmente sulla proteina Spike, cioè il “gancio” con cui il virus entra nell’organismo, ma questa potrebbe subire mutazioni tali a rendere inefficaci vaccini o farmaci. Come riporta il Journal of Proteome Research, i ricercatori canadesi hanno invece individuato due sequenze di proteine condivise da tutti i tipi di virus Sars-Cov2 conosciuti finora (chiamate nsp12 e nsp13), sulle quali mettere a punto un nuovo farmaco. Su una delle due, infatti, sono già stati condotti i test di fase II e III. «Questo potrebbe portare a un farmaco di tipo chimico, tradizionale, per tenere sotto controllo la malattia, bloccando la replicazione del virus. Trattandosi di sequenze di proteine interne al virus stesso, una loro inibizione non porterebbe ad impedire l’ingresso nell’organismo, come fanno invece i vaccini» commenta l’esperto del San Raffaele.
Come si cura oggi l’infezione da Sars-Cov2
Ma intanto come si cura il Covid? L’Ema ha approvato un solo antivirale, messo a punto contro l’Ebola: si tratta del Remdesivir, da somministrare solo per infusione in ospedale e solo, dunque, quando la malattia sta iniziando ad avere un decorso più grave. «Nelle fasi iniziali si usano farmaci per il trattamento sintomatico dell’infiammazione delle vie respiratorie, come il paracetamolo contro la febbre, i dolori e il malessere. In alcuni casi può essere necessario il ricorso a prodotti antinfiammatori veri e propri, come l’ibuprofene, il ketoprofene o l’acido acetilsalicilico, il cui uso è preferito da qualcuno mentre altri lo sconsigliano per via dei possibili effetti collaterali descritti quando vengono impiegati in infezioni virali. Questa evenienza, però, non pare frequente nel caso del Covid.
Non servono, invece, gli antibiotici perché si tratta di un virus e non di un batterio, a meno che non si verifichi una sovrainfezione batterica, ma in questo caso ci sarà una valutazione specifica da parte del medico – spiega Dagna – Caso di soggetti fragili, come detto, nelle fasi iniziali della malattia si può valutare il ricorso ai monoclonali. Il cortisone è previsto per pazienti che hanno necessità di supplementazione di ossigeno, quindi con ventilazione meccanica o no, ed eventualmente si può valutare se sia necessario utilizzare altri immunosoppressori, ma sempre sotto attenta osservazione medica».
Perché si studiano gli effetti della vitamina D
Intanto diversi studi hanno indagato i pazienti Covid, fin dall’inizio della pandemia (quando i sintomi erano soprattutto respiratori) con stili di vita, alimentazione, quantità di movimento fisico, ecc., arrivando in alcuni casi a spunti interessanti, anche se le ricerche necessitano di ulteriori approfondimenti. Per esempio, uno studio italiano coordinato dall’IRCCS Policlinico San Donato e pubblicato sulla rivista scientifica Radiology, ha evidenziato un collegamento tra sarcopenia (perdita di massa muscolare e riduzione della forza muscolare) e una maggiore probabilità di un decorso sfavorevole, con più rischio di entrare in terapia intensiva o di ammalarsi di Covid in forma più grave. Il motivo sarebbe legato soprattutto alla quantità di muscolatura a livello del tronco che, se più sviluppata, aiuterebbe nella respirazione durante l’infezione.
Secondo un altro studio, pubblicato a giugno sulla rivista Jama Network Open e condotto da un’equipe di esperti italiani dell’Istituto Auxologico di Milano e dell’Università degli Studi di Milano, una carenza di vitamina D raddoppia il rischio di contagio da coronavirus. A risultati analoghi è giunta anche un’altra ricerca, che confermato una correlazione tra un deficit di vitamina D e un maggior numero di vittime, mentre nel Regno Unito è in corso un’indagine per verificare se una corretta integrazione di vitamina D possa contribuire a prevenire o ridurre gli effetti di un eventuale infezione da coronavirus. La prudenza e la cautela sono d’obbligo, perché i vaccini rimangono l’arma principale, se non unica, per combattere il Covid, ma il nesso tra vitamina D e infezione continua a essere studiato: «La vitamina D è un ormone ormai noto dai primi del ‘900 e di cui si conosceva soprattutto l’importanza per la salute delle ossa, ma la sua attività ha anche altri effetti come la regolazione del metabolismo del glucosio e dei lipidi, il corretto funzionamento muscolare e una funzione immunitaria, che oggi è oggetto di grande attenzione a causa del Covid» conferma Francesco Giorgino, presidente della Società italiana di endocrinologia. «Al momento possiamo dire che diversi studi confermano che una carenza importante di vitamina D è associata a un’alterazione del sistema immunitario e può aumentare il rischio di polmonite da Covid più severa o con maggiore mortalità. Ciò che manca ancora è la dimostrazione che una supplementazione di vitamina D possa aiutare a contrastare l’infezione da Sars-Cov2, occorrono ulteriori dati» conclude l’endocrinologo dell’Università di Bari – A. Moro. Insomma, su questo fronte occorrono altre ricerche.