È venerdì. A casa di Stefania e Giacomo le bambine hanno la febbre. Telefonata alla pediatra e tutta la famiglia si mette in macchina per fare il tampone al drive in. Poi si chiude in isolamento in attesa. Domenica arriva l’esito per le figlie: sono negative. Ma dei genitori non si sa nulla. Le bimbe possono andare a scuola o no? Due chiamate a due Asl diverse. Due risposte opposte. Storia di ordinaria, quotidiana confusione nei giorni in cui il Covid torna ad aggredire il nostro Paese e tracciare i contagi diventa sempre più difficile: dal bollettino del ministero della Salute di metà ottobre emerge che un caso su 3 è sfuggito al controllo.
«Il metodo del contact tracing nel nostro Paese si fonda su un servizio di call center organizzato dalle Regioni: gli operatori chiamano le persone indicate da chi è positivo al tampone, invitandole a sottoporsi a loro volta all’esame» spiega Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi clinici italiani, membro del comitato tecnico scientifico della Lombardia. «Tutto ha funzionato fino alla terza settimana di settembre, quando nelle zone calde i casi hanno cominciato a moltiplicarsi da un giorno all’altro. Ma il blackout del servizio di tracciamento era inevitabile perché, dati alla mano, per ogni positivo c’è una media di 10-15 telefonate da fare». In pratica il meccanismo è stato pensato per rispondere bene con i numeri di questa estate. Ma è saltato quando è arrivata la seconda ondata.
Tracer: ora arrivano i rinforzi
Ora stanno arrivando i rinforzi: si parla del reclutamento nei call center di 2.000 persone in tutta Italia, il 10% solo per rispondere all’emergenza lombarda dove i numeri dei positivi stanno lievitando: nella seconda settimana di ottobre è stato registrato un +260%.
«Ha remato contro la rigidità del nostro sistema» interviene Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. «I cosiddetti tracer devono essere assunti dalle Regioni e le lungaggini burocratiche rappresentano da sempre il grande problema. Per fortuna adesso per rispondere all’emergenza in molte Regioni è stata chiesta la collaborazione anche delle Usca. Sono le unità di intervento a domicilio che ora non si occupano più solo di visitare i malati di Covid a casa ma eseguono anche i tamponi e supportano i call center nel contattare le persone che hanno avuto un contatto a rischio».
Anche l’app Immuni, su cui il Governo ha puntato in questi mesi per tracciare i contagi, non ha dato i risultati che ci si aspettava. E non solo perché gli italiani che l’hanno scaricata sono stati troppo pochi. «Il problema» spiega Filippo Anelli «è anche legato a un codice di sblocco che non è mai stato attivato da alcune Asl. Una disattenzione che ha impedito di caricare i riferimenti degli utenti positivi. Ora il Governo è corso ai ripari obbligando tutte le aziende sanitarie ad attivare la procedura».
Il problema dei ritardi nelle comunicazioni
Il problema dei ritardi nelle comunicazioni però per il momento resta. «Abbiamo ricevuto da poco la testimonianza di una mamma, la figlia liceale è risultata positiva, era domenica e ha funzionato più la chat dei genitori che la comunicazione ufficiale della Asl: la scuola il lunedì mattina non sapeva ancora nulla e i compagni di classe sono stati contattati solo in serata» racconta Isabella Mori, responsabile tutela Cittadinanzattiva, che sul sito ha una sezione interamente dedicata al coronavirus e dallo scorso febbraio un servizio di ascolto per la pandemia. «I ritardi nelle comunicazioni e la confusione su come ci si deve comportare per proteggere se stessi e gli altri sono all’ordine del giorno».
Il problema è noto anche alle Regioni e ora si cercano nuove soluzioni per dare ai cittadini indicazioni veloci e univoche. In Lombardia ci provano con un sms. Dal 22 ottobre i positivi per Covid 19 lo ricevono direttamente sul telefonino. Li invita a registrarsi al portale “Milano COR” dove una scheda personalizzata spiega come comportarsi durante l’isolamento e chiede di segnalare i dati anagrafici dei conviventi e i contatti avuti nei giorni precedenti.
«Ci vuole uno schema semplice, che sia utilizzabile da tutti, operatori sanitari e cittadini, e che non lasci dubbi sulle strategie da seguire in caso di contatti a rischio» interviene Anelli. «Ma naturalmente con questi numeri serve anche altro: la possibilità di eseguire rapidamente i tamponi, senza ritrovarsi in code pericolose, a loro volta fonte di contagio».
Gli esami fast sono una soluzione. In alcuni ospedali, per esempio, ci si sta organizzando per farli ogni 15 giorni a tutto il personale medico. «Sono un po’ meno specifici ma si ottiene il risultato in pochi minuti e a quel punto si decide di fare il tampone classico solo ai positivi, per la conferma definitiva» sottolinea il dottor Filippo Anelli. Trovare chi può eseguirli in tutta Italia però non sarà semplice. Il governo ci prova con i medici di famiglia ma molti rispondono che nei loro ambulatori non hanno gli spazi adatti per garantire la sicurezza. E nessuno li può obbligare: i medici infatti non sono dipendenti pubblici.
Covid: basso e alto rischio
Il rischio è alto se i contatti con un positivo sono stati stretti. È il caso, per esempio, dei compagni di classe e del collega sul posto di lavoro. In questo caso si rimane in isolamento in attesa del tampone. Se a essere positivo è un convivente, a restare a casa deve essere tutta la famiglia.
Il rischio è basso quando si tratta di un contatto “di secondo passaggio” come quello che lega un genitore alla compagna di classe della figlia o che può esserci tra un portiere del palazzo e i condomini. In questi casi spesso il medico prescrive un tampone fast ma non richiede l’isolamento.