Da Bologna a Mondragone, da Roma a Parma. E poi Vicenza, Rimini, Mira, Jesolo, Cuneo… È il bollettino dei focolai di Covid-19 delle ultime settimane. Ormai la mappa si aggiorna quotidianamente. E viene tenuta sotto stretta osservazione sia dal governo sia dalle Regioni. Intanto, però, i farmacisti denunciano un crollo delle vendite di mascherine e molti, alla vista delle movide metropolitane e delle spiagge affollate, si chiedono quali comportamenti sia giusto mantenere nella nuova normalità di queste vacanze. Perché il virus, lo stesso che fino a pochi mesi fa ci aveva costretto al chiuso delle case e di cui molti ipotizzano un ritorno in autunno, è sempre tra noi e non molla la presa.
«Quella di quest’anno sarà un’estate con pochi contagi» assicura il virologo Giovanni Di Perri, membro della task force Covid della Regione Piemonte e direttore del Centro malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino. «Ma l’attenzione deve restare massima. Ed è giusto che i casi di questi giorni facciano rumore. Contrariamente a quanto accadeva in inverno, quando ci limitavamo passivamente a curare i sintomatici, adesso non ci fermiamo alla punta dell’iceberg: per ogni persona positiva allarghiamo i test a tutti i contatti e poi ai contatti dei contatti, in una logica di cerchi concentrici, finché non arriviamo a chiudere la catena. I casi di oggi sono riconducibili a focolai ben individuati e noi possiamo spegnerli».
Dunque sono i numeri e la strategia a essere mutati, non il virus…
«Il virus continua inevitabilmente a circolare, anche se con numeri molto più bassi, ed è lo stesso di sempre, quindi può avere le stesse conseguenze devastanti sull’organismo. Altrimenti in laboratorio avremmo rilevato una mutazione sulla sua sequenza genomica. Il Sars-Cov-2 non ha la “necessità evoluzionistica” di modificarsi. Se fosse stato altamente mortale avrebbe dovuto indebolirsi per vivere più a lungo nell’organismo umano che lo ospita e garantirsi la sopravvivenza della specie. In realtà è già in una condizione ideale: fa male “solo” a una persona su 5 e si diffonde quasi indisturbato tramite le altre 4. Dal punto di vista della contagiosità, invece, quello che abbiamo visto è che non tutti i positivi diffondono la malattia allo stesso modo».
In che senso? «A breve pubblicheremo uno studio condotto su 550 pazienti del nostro ospedale nei primi 15 giorni di marzo. Abbiamo notato che la maggior parte di loro aveva nell’orofaringe una quantità di virus molto bassa, pur mostrando i sintomi della malattia, e non ha contagiato nemmeno i familiari. Altri invece sono arrivati a infettare fino a 18 persone: sono quelli che nella nostra ricerca abbiamo chiamato i “diffusori”».
Sole e caldo hanno un ruolo nel calo dei contagi?
«No, altrimenti non ci sarebbe una situazione come quella del Texas, dove nonostante le temperature altissime si contano migliaia di casi ogni giorno. Il discorso è un altro: con il freddo il nostro fisico è meno in grado di difendersi dai virus, perché l’epitelio ciliare delle vie aeree, che ci protegge, funziona peggio ed è per questo che ci ammaliamo e ci raffreddiamo di più in inverno. Ma per “lui”, per il coronavirus, non cambia nulla».
Quali sono le situazioni più a rischio?
«Un discrimine importante è tra luoghi e aperti e luoghi chiusi. Come hanno ribadito nelle ultime settimane 239 scienziati che hanno scritto all’Oms, chiedendo di rivedere le raccomandazioni sulla sicurezza, il Sars-Cov-2 si trasmette per via aerea. E questo significa che non viaggia solo attraverso tosse e starnuti, ma anche tramite piccole goccioline di aerosol di diametro inferiore a 10 micron, che emettiamo anche solo respirando o parlando, e che restano sospese più a lungo nell’aria. All’aperto queste goccioline si disperdono con facilità, ma al chiuso il rischio che entrino in contatto con il viso e le mucose dei presenti è tanto più alto quanto più è basso il ricircolo d’aria. Le faccio un esempio concreto di una situazione comune e potenzialmente pericolosa: l’ascensore. Entrarci insieme a un infetto o subito dopo è molto rischioso».
E qual è il livello di rischio negli altri luoghi chiusi?
«Negli spazi più grandi il discorso è un po’ più complesso. Se sono in un ristorante che ha la metà dei tavoli liberi posso cenare anche senza mascherina, ma se è piccolo, affollato, e senza finestre, non sono sufficienti nemmeno i 2 metri di distanziamento tra una persona e l’altra: dopo mezz’ora un “diffusore” avrà saturato l’aria di virus. Uno studio che arriva dalla Cina e che ha fatto il giro del mondo ha dimostrato come in un caso analogo, complice l’aria condizionata, è bastato un solo positivo per infettare 9 persone, alcune sedute anche in altri tavoli».
Quanto tempo dobbiamo sostare accanto a un positivo, per ammalarci?
«Posto che teoricamente a un diffusore possono bastare 10 secondi di contatto ravvicinato, all’aperto la trasmissione è più difficile ma i baci, gli abbracci o il parlarsi molto da vicino restano comportamenti che bisogna evitare sempre e ovunque. Dobbiamo cercare di essere meno espansivi».
Quando serve la mascherina? Le Regioni vanno via via eliminando l’obbligo all’aperto…
«All’aperto non è indispensabile, ma al chiuso è giusto continuare a metterla. E tenere presente che nelle situazioni più a rischio una Ffp2 o Ffp3 ben indossata è un ottimo scudo».
Treno, aereo, mezzi pubblici, come comportarci?
«Preferire i mezzi dove è garantito il riciclo d’aria. Trenitalia ha fatto sapere che sui treni ad alta velocità c’è un sistema di ricambio continuo, è un’ottima notizia. Per quanto riguarda gli aerei, a meno di non avere rassicurazioni in questo senso, eviterei voli lunghi. E ovunque indosserei una mascherina filtrante, indipendentemente dal distanziamento. La chirurgica in questi casi non è sufficiente».
Come la mettiamo con aperitivi e cene? È pericoloso condividere una ciotola di patatine?
«Il rischio di un aperitivo in compagnia è legato più alla vicinanza con gli altri che a un’eventuale trasmissione attraverso il cibo. Non sono gli alimenti il veicolo di trasmissione. È molto improbabile che il virus “passi” da lì».
Nessun pericolo dalle zanzare
Era una delle preoccupazioni di inizio stagione, ma i primi dati di uno studio condotto dall’Istituto superiore di sanità con l’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie ci confortano: la zanzara, che sia comune o “tigre”, non è in grado di trasmettere il Sars-Cov-2. Attraverso una serie di prove i ricercatori hanno dimostrato che il virus non riesce a replicarsi nell’organismo dell’insetto. Quindi anche nel caso in cui l’animale si cibi del sangue di una persona infetta e poi ne punga un’altra, non può infettarla.