Le immagini delle proteste provenienti dalle piazze di tutta Italia – da Napoli a Torino, passando per Roma, Milano, Palermo, Firenze – colpiscono, e preoccupano. «Vogliamo curarci senza morire di fame» si leggeva su uno striscione esposto nella Capitale: uno slogan che è il simbolo di quanto il Covid con il passare dei mesi stia diventando un’emergenza, oltre che sanitaria, sociale.

Hanno manifestato insieme commercianti e precari

Dietro le migliaia di italiani che hanno scelto di manifestare pacificamente – anche se il più delle volte, come sempre, hanno fatto notizia le infiltrazioni di gruppi violenti – c’è un malcontento nato dai mesi di incertezze e sacrifici ed esploso di fronte allo scenario di ulteriori restrizioni, coprifuoco, zone rosse, lockdown. Che, nonostante gli aiuti contenuti nel Decreto Ristori e quelli ulteriori annunciati dal governo, precipiterebbero molti nella povertà.

Nelle proteste di piazza oggi «si rilevano 2 componenti distinte» osserva Fabrizio Barca, statistico ed economista, che coordina il Forum Disuguaglianze e Diversità. «Da un lato, ci sono i lavoratori e i microimprenditori del commercio, della ristorazione, dell’intrattenimento e della cultura che avevano sofferto durante il lockdown in primavera, hanno tentato di rimettere in piedi le proprie attività dall’estate in poi, anche indebitandosi, e ora si trovano in una situazione ancora peggiore di prima. Dall’altro, c’è una categoria a lungo trascurata: i 6 milioni e mezzo di lavoratori irregolari o precari del nostro Paese, quelli che fanno funzionare le fabbriche, i servizi, la logistica. Per loro il governo è intervenuto tardi, con un reddito di emergenza comunicato male e a cui è tuttora difficile accedere». Una situazione drammatica in un’Italia in cui 10 milioni di persone, ovvero 1 abitante su 6, non hanno risparmi sufficienti per vivere più di una settimana senza uno stipendio o una forma di aiuto.

Le disparità economiche sono anche sanitarie

Non a caso c’è chi ha definito il Sars-CoV-2 “il virus delle disuguaglianze”, perché si sta dimostrando una cartina al tornasole delle fratture esistenti nella nostra società. Se le proteste degli ultimi giorni hanno evidenziato la disparità economica tra i lavoratori – quelli che possono continuare a svolgere le proprie mansioni in smart working e quindi contare su un’entrata a fine mese, quelli che scontano lo stop dell’attività in proprio oppure dell’azienda dove sono assunti con le inevitabili ricadute sullo stipendio e, ancora, gli irregolari e i precari lasciati senza tutele – le differenze di status e di reddito stanno giocando un ruolo importante anche a livello sanitario, nella propagazione del virus. Che colpisse maggiormente i ceti, e i quartieri, più disagiati si era notato già a New York, Madrid, Parigi: ora si inizia a vedere, per esempio, a Napoli dove, analizzando i dati del Comune sui contagi dei primi giorni di ottobre scorporati per municipalità, la zona orientale, più povera, ha fatto registrare un incremento dei casi.

«La disuguaglianza ambientale diventa sanitaria» sintetizza Fabrizio Barca, e porta l’esempio di Torino. «Qui, tra periferie e centro, c’è una differenza nella speranza di vita per gli uomini di ben 5 anni. È una questione di cura delle persone, ma anche di accesso ai servizi sanitari».

In situazioni del genere, contenere i contagi diventa complicato. Un nucleo numeroso che vive in un’abitazione piccola difficilmente riuscirà a isolare un familiare positivo. Un lavoratore precario difficilmente si metterà in auto-isolamento nel caso di un contatto a rischio, di fronte alla paura di perdere il posto. E altrettanto difficilmente chi ha uno stipendio minimo potrà permettersi di fare un tampone a pagamento se, come sta avvenendo, ci sono ritardi nel sistema pubblico di tracciamento e test.

Le grandi crisi accentuano le disuguaglianze

«La storia ci dice che in caso di pandemie, come la Spagnola di inizio ’900, e di catastrofi naturali di vaste dimensioni, come l’uragano Katrina, le disuguaglianze si accentuano» osserva Guido Alfani, docente di Storia economica e membro del Covid Crisis Lab dell’università Bocconi di Milano. «Perché sei meno resiliente, meno in grado di reagire, se parti da una condizione socio-economica peggiore: chi vive in spazi ristretti è più a rischio di contagio in famiglia; mentre chi si ammala rischia di perdere anche parte del proprio reddito, magari già basso o non garantito, e di sprofondare ancor più nella povertà. Ai tempi della della Spagnola, in Svezia per ogni morto ci sono stati 4 nuovi poveri che hanno dovuto chiedere assistenza pubblica».

Oggi, poi, occorre fare i conti con «il calo dell’occupazione che riguarda le fasce più precarie: nel secondo trimestre di quest’anno siamo a -2,7% per gli uomini, -4,7% per le donne e -8% per i giovani» aggiunge Fabrizio Barca. Su 841.000 posti di lavoro persi, dicono gli ultimi dati della della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, quelli femminili rappresentano il 55,9% (vedi box). «Dal punto di vista sanitario, le donne sono state meno colpite dal virus e, come evidenziato da un nostro studio recente, hanno anche seguito meglio regole e prescrizioni» racconta Paola Profeta, professoressa di Economia pubblica e collega di Alfani nel Covid Crisis Lab bocconiano. «Però dal punto di vista del mercato del lavoro sono state le più penalizzate, anche perché questa è una crisi che investe i settori in cui sono più presenti: ristorazione, turismo, servizi».

 

Occorre intervenire sul reddito d’emergenza e sul welfare di comunità

La situazione è preoccupante, ma è necessario coltivare la speranza. «Soprattutto in Paesi come il nostro, in cui neanche prima “andava tutto bene” e ci trovavamo in una fase di ristagno economico e sociale, è necessario aprire uno spazio politico di discussione e di progettualità per il futuro» dice Guido Alfani.

Già, il futuro. Per poterci credere bisogna partire dall’oggi, insiste Barca: «È necessario migliorare il reddito d’emergenza (nato con il Decreto Rilancio, è stato prorogato con il Decreto Ristori per altri 2 mesi, novembre e dicembre, ndr) e intervenire sul mercato degli affitti. Non a caso uno degli slogan nelle piazze era: “Casa! Sennò dove lo fai il lockdown?”. Poi, sul medio-lungo termine, bisogna lavorare sul welfare di comunità, evitando di scaricare tutta la responsabilità della cura sulle donne, e risolvere la crisi abitativa. Ma soprattutto bisogna ascoltare, dialogare, spiegare. Per evitare che si crei una divisione tra gruppi sociali, tra chi può contare su un lavoro stabile e chi, da precario, si sente lasciato solo, senza voce né rappresentanza».

Le donne hanno perso 470.000 posti di lavoro

Esempio dell’aumento delle disuguaglianze generato dal Covid è il calo dell’occupazione femminile. Secondo i dati dell’ultimo focus della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, nel secondo trimestre del 2020 ci sono 470.000 occupate in meno rispetto allo stesso periodo del 2019, per un calo nell’anno del 4,7%. I posti di lavoro femminili persi sono il 55,9% su un totale di 841.000. La maggiore contrazione si registra nell’occupazione a termine (-22,7%), nelle forme in part-time (-7,4%) e nel settore dei servizi, soprattutto ricettivi e ristorativi (dove le donne sono il 50,6% del totale degli addetti).