«Pensi che in autunno ci richiuderanno di nuovo?» mi chiede
un caro amico di gioventù, che gestisce una merceria nel paese dove sono nata.
«Non ne so più di te» lo deludo.
«Io te lo dico: se ci chiudono ancora, è la volta che non riapro più»
afferma perentorio.
«Ma non hai ricevuto aiuti in questi mesi?» gli chiedo incredula.
«Neanche un euro. Ne aveva diritto solo chi aveva fatturato almeno il 30% in meno del 2019: non è il mio caso. Ma questo non vuol dire che riesca ad andare avanti. Devo continuare a pagare l’affitto del locale e tutta la merce che ho in negozio, anche se non la vendo» mi spiega. «La verità è che, di noi piccoli commercianti, non interessa nulla a nessuno».
Questa conversazione fotografa il preciso momento in cui ho ammesso a me stessa di essere favorevole al green pass obbligatorio per accedere ai luoghi affollati, che siano una pizzeria o un’arena. È il momento in cui mi sono tornate in mente tutte le serrande chiuse del quartiere dove abito,
di cui semplicemente non conoscevo la storia. Il momento in cui ho pensato che la limitazione alla libertà di una minoranza, per quanto teoricamente scorretta, sia fondamentale per garantire la sopravvivenza
di molti. Perché dietro la frase-slogan «Non possiamo permetterci una nuova chiusura generalizzata» ci sono un’infinità di persone che fanno dipendere da quella chiusura la loro possibilità di andare avanti.
La minoranza di non vaccinati, a parte i no vax, è composta in gran parte da giovani. Ovvero la categoria che psicologicamente ha sofferto di più questa pandemia e che viene utilizzata come scudo da chi si oppone al green pass obbligatorio. Ma non è certo chiedendo a un diciottenne di mostrare un certificato vaccinale che gli si rovina l’estate o gli si impedisce di guarire le proprie ferite interiori. Non è certo consentendogli una socialità sfrenata e senza limiti che si ricuce lo strappo di questi mesi. Riteniamo che i nostri ragazzi non siano in grado di reggere un’ennesima delusione, un’ennesima limitazione. Come sempre, li stiamo sottovalutando e stiamo fraintendendo la loro fragilità. Non è l’irresponsabilità che curerà il loro disagio. Non è una vorace abbuffata di divertimento che restituirà loro i mesi perduti.
La libertà condizionata che stiamo sperimentando è forse la nostra salvezza. Quella che ci ricorda da dove veniamo e cosa abbiamo vissuto.
E che è normale se non ci sentiamo ancora del tutto a posto, con gli altri e con noi stessi. È un limbo che può aiutarci a trovare l’equilibrio tra la paura di uscire e la paura di perdere tutto ciò che è la fuori. Un limbo attraverso cui passare per costruire una nuova socialità basata sul rispetto e sulla responsabilità. Ciò di cui abbiamo bisogno noi e i nostri ragazzi.