Nelle aule del Parlamento e sui luoghi di lavoro da giorni si discute solo di Green Pass. Ma cosa sta succedendo intanto sul fronte delle cure anti Covid? E quanto è diminuito il rischio di ammalarsi? Nelle corsie degli ospedali l’infezione sembra non solo sotto controllo ma anche più curabile. I numeri del ministero e dell’Istituto di Sanità parlano da soli: l’immunizzazione ha salvato 30.000 vite. E durante la quarta ondata positivi e vittime sono rimasti sempre sotto la soglia critica.

Nella strategia per arginare il virus le parole su cui si concentra ora l’attenzione sono due: farmaci, perché all’orizzonte ce ne sono di nuovi. E dose, la terza per la precisione. Facciamo il punto con due esperti d’eccezione. A loro poniamo le domande su quello che ci aspetta.

Si parla molto del molnupiravir, il nuovo farmaco contro il virus. Che cos’è? E quando arriverà?
«Questo principio attivo è il primo antivirale in pillola, un farmaco che inizialmente era stato sviluppato per l’influenza» spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. «In pratica, stoppa la replicazione del Covid, inserendo errori nel suo codice genetico in maniera casuale, così il virus non può sopravvivere nell’organismo. Blocca anche la trasmissione della malattia e riduce la carica virale nei pazienti. Infine, cosa più importante, riduce il rischio di ospedalizzazione o morte di circa il 50%. La casa farmaceutica Merck che lo ha prodotto ha appena chiesto l’autorizzazione alla Fda, l’ente regolatore statunitense, e negli Usa sarà disponibile entro la fine dell’anno. Poi, se sarà approvato anche da Ema, l’Agenzia europea del farmaco, averlo in Italia sarà questione di settimane. Anche Pfizer sta puntando su un antivirale, così come Atea Pharmaceuticals e Roche, ma per avere i risultati di queste sperimentazioni cliniche dobbiamo aspettare i prossimi mesi».

Torniamo al presente, sempre sul fronte delle terapie: come si cura oggi, in Italia, un malato di Covid?
«Il ministero della Salute ha fornito delle linee guida precise ai medici e devo dire che ormai vengono seguite» risponde il professor Remuzzi. «Le sintetizzo: usare paracetamolo o antinfiammatori in caso di febbre o dolori articolari o muscolari; non modificare le terapie per altre patologie, come l’ipertensione; niente corticosteroidi, i cortisonici che agiscono sull’infiammazione, e idrossiclorochina, il famoso antimalarico; antibiotici solo se c’è un’infezione batterica ed eparina solo per chi è immobilizzato a letto. E intanto si continua a studiare. All’Istituto Negri abbiamo sviluppato un protocollo alternativo per le terapie domiciliari precoci, con l’uso immediato di alcuni antinfiammatori non steroidei: prescriviamo farmaci a base di nimesulide ancora prima che arrivino i risultati del tampone. Su 108 pazienti, solo uno è stato ricoverato. In pratica si sta ipotizzando che questo principio attivo spenga la famosa tempesta infiammatoria che fa degenerare la malattia e che sia più efficace, per esempio, del paracetamolo. Lo studio va confermato, ma è molto promettente».

Tutti intanto si chiedono perché i famosi anticorpi monoclonali non vengano usati. È vero che rimangono inutilizzati negli ospedali?
«Diciamo subito che sono un prodotto che funziona perché colpiscono, cioè uccidono, direttamente il virus» risponde Luigi Cavanna, primario di Oncoematologia all’ospedale di Piacenza: lui è uno dei pionieri delle cure contro il Covid a domicilio, protagonista perfino di una copertina del Time per i risultati che ha ottenuto nei giorni più bui della pandemia. «Questi farmaci però» prosegue il dottor Cavanna «sono riservati ai pazienti più gravi, come gli anziani o chi ha altre patologie importanti. E sono difficili da somministrare perché efficaci solo nei primi giorni della malattia. Quindi la risposta è no, non rimangono inutilizzati per inefficienza, non si sprecano, ma non se ne può fare un uso di massa, come potrebbe succedere con i nuovi antivirali».

Passiamo alla campagna vaccinale. Perché la terza dose? Come e quanto ci rende più protetti?
«Facciamo chiarezza: per chi ha avuto un trapianto, sta facendo chemioterapia o ha malattie serie che compromettono il sistema immunitario è fondamentale a tutte le età: queste persone non sviluppano abbastanza anticorpi e non sarebbero protette» risponde il professor Remuzzi. «Poi ci sono gli operatori sanitari, gli ospiti delle Rsa e gli over 80: anche loro sono più a rischio quindi la terza dose è un “booster”, un richiamo che rinforza la protezione. Il ministero della Salute ha dato il via libera anche per gli over 60 perché una ricerca molto importante su oltre 1 milione di persone ha dimostrato che la terza dose riduce di 19 volte il rischio di forme gravi di malattia. Se parliamo di giovani e adulti in buona salute, invece, i dati a disposizione ci dicono che a loro il rinforzo non serve: l’efficacia della profilassi può diminuire dopo 6 mesi ma rimane sufficiente».

Nel momento in cui scriviamo negli Stati Uniti è stato autorizzato il richiamo booster anche con il vaccino Johnson&Johnson. Vale anche per noi?
«Per ora solo Pfizer ha l’autorizzazione dell’Agenzia europea del farmaco per la terza dose» precisa il dottor Cavanna. «In attesa di ulteriori via libera chi ha fatto il primo ciclo con Moderna, Astrazeneca e J&J riceve una terza dose Pfizer. Senza problemi, anzi: gli studi hanno dimostrato che la vaccinazione eterologa, con due preparati diversi, è molto efficace perché stimola una produzione maggiore di anticorpi».


Le nuove pillole antivirali dimezzano il rischio di finire in ospedale e negli Stati Uniti saranno disponibili entro la fine dell’anno


 

Pfizer ha annunciato che il suo vaccino sarà aggiornato entro il prossimo anno contro le nuove varianti: cosa dicono gli ultimi studi sull’efficacia? «Una recente ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet sottolinea che le due dosi dell’azienda americana sono efficaci al 90% contro i ricoveri per Covid-19 per tutte le varianti, Delta inclusa, per almeno 6 mesi» racconta il dottor Cavanna. «Teniamo anche presente che in questi studi si valutano i risultati usando solo il dosaggio degli anticorpi, ma in futuro dovremo prendere in considerazione anche l’immunità cellulare, una protezione a lungo termine molto importante. È una sorte di memoria del sistema immunitario, che riconosce la malattia e si attiva quando entriamo in contatto con il virus: sono in corso diversi studi e potremo quantificarla nei prossimi mesi».

A conti fatti dovremo tutti riproteggerci ogni anno?
«È presto per dirlo» risponde il dottor Cavanna. «Il Covid-19 potrebbe diventare un’infezione da cui tutelarsi ogni anno, come l’influenza. Ma l’ottimo andamento della campagna vaccinale sta facendo calare il numero dei malati e la diffusione del virus, che magari si indebolirà molto nei prossimi 12 mesi. In fondo, prima dell’estate eravamo impauriti dalla variante Delta che poi, grazie alla diffusione delle immunizzazioni, si è rivelata meno pericolosa del previsto».

NEL LABORATORIO DEL FUTURO

Il super medicinale contro le pandemie

Tra gli addetti ai lavori non si parla d’altro. In America, un team guidato da Karla Satchell, immunologa della Northwestern University di Chicago, sta lavorando a un unico, potentissimo, farmaco che sconfigge ogni tipo di coronavirus. Gli scienziati hanno individuato una proteina, la Nsp16, che è comune a tutti e che fa proliferare il virus. Ebbene, questo ritrovato riesce a neutralizzarla. Sarà l’arma per dire addio a un futuro di pandemie? «È un’ipotesi suggestiva ed è la strada da percorrere. Ma, appunto, ora è solo un’ipotesi» avverte il dottor Luigi Cavanna. «A Chicago sono ancora ai test in laboratorio e bisogna vedere se la sostanza sarà efficace nell’uomo. Tanti medicinali che sembravano promettenti hanno fallito. Di certo, è importante tenere i riflettori accesi perché i coronavirus, dalla Sars al Covid, si sono presentati ciclicamente, circa ogni 10 anni, e non possiamo più farci trovare impreparati».

E il vaccino antinfluenzale?

Gli over 80 lo stanno vedendo in questi giorni: quasi tutte le Regioni propongono il vaccino antinfluenzale insieme alla terza dose contro il coronavirus. È una buona idea? «Io dico di sì» risponde Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. «Un recente lavoro inglese condotto su 679 persone e pubblicato sulla rivista The Lancet ha dimostrato che gli effetti collaterali come dolori, febbre e stanchezza non aumentano quando i due vengono somministrati insieme. Quindi è un’ottima strategia perché si evita di doversi recare due volte al centro vaccinale».