Vaccinarsi contro le principali malattie infettive aumenterebbe la protezione anche nei confronti di un possibile contagio e aiuterebbe a ridurre gli effetti negativi di un’infezione da Sars-Cov2. A mostrarlo sono i primi risultati di uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri. Dalla ricerca, condotta su oltre 137mila soggetti a rischio di contagio da coronavirus, emerge che chi aveva una copertura vaccinale contro l’influenza batterica (Haemophilus influenzae) ha ridotto di quasi la metà (47%) le probabilità di infezione da Sars-Cov2. I risultati, pubblicati sulla piattaforma medRxiv, devono ancora essere valutati da enti terzi, ma sembrano incoraggianti.
Le vaccinazioni tradizionali «aiutano»
Dopo gli appelli a vaccinarsi contro l’influenza stagionale, giunti dall’ordine dei medici e confermati dalla raccomandazione del ministero della Salute a estendere la copertura anche ai soggetti non a rischio (over 65, cardiopatici, donne in gravidanza, malati oncologici, ecc.), arrivano altre conferme sull’azione delle vaccinazioni – anche tradizionali – contro le infezioni da Sars-Cov2. Si tratta di quelle per morbillo-rosolia-parotite, varicella, epatite A e B, poliomielite, haemophilus influenzae, ma anche pneumococco, cioè il batterio responsabile della maggior parte delle polmoniti contratte al di fuori degli ospedali. Come spiegato da Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto Negri che con il Policlinico di Milano sta proseguendo le ricerche, la vaccinazione anti-polio ridurrebbe del 43% le probabilità di infezioni da coronavirus, l’antipneumococco del 28%, mentre chi è vaccinato contro l’haemophilus influenzae avrebbe una protezione maggiore del 47% contro il Covid.
«I risultati non stupiscono perché è dimostrato da tempo il rischio di co-infezioni, cioè presenza di infezioni contemporanee causate dal virus influenzale e da batteri come lo stafilococco o lo pneumococco. È uno dei motivi principali per i quali si raccomanda la vaccinazione antipneumoccocco: sia per le conseguenze dirette del batterio, come otiti o meningiti, sia per evitare che la sua azione si sommi a quella del virus influenzale stagionale. Il vantaggio è quello di eliminare almeno una fonte di infezione. Lo stesso vale per le altre malattie infettive» spiega l’infettivologo Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova.
Covid, come agiscono le altre vaccinazioni
Finché non ci sarà un vaccino specifico contro il Covid, anche le altre vaccinazioni potrebbero aiutare a ridurre il rischio di infezioni. «Le vaccinazioni contro qualunque malattia infettiva, ne limitano la circolazione, dunque contribuiscono a evitare o ridurre la probabilità di coinfezioni. È evidente che per l’organismo (e per i medici) gestire una sola infezione alla volta è molto più semplice che non più infezioni in contemporanea, che hanno un effetto debilitante» spiega l’infettivologo. «Ciò è ancora più vero nel caso dell’influenza, i cui sintomi nella fase iniziale sono molto simili a quelli del Covid: tosse, febbre, tonsillite o forme più blande di polmonite. Qualcuno obietta che il vaccino antinfluenzale non ha un’efficacia del 100%, ma del 50/60%, ma io mi chiedo: se anche fosse, perché privarsi della possibilità di ridurre i rischi della metà? Tanto più che questa vaccinazione, come le altre tradizionali, è molto ben tollerata: non si tratta certo del vaccino contro la febbre gialla, che può dare effetti collaterali più importanti. Al massimo l’antinfluenzale può causare un po’ di fastidio nella sede dell’iniezione e una leggera febbre. Se li mettiamo sul piatto della bilancia insieme ai benefici, questi ultimi sono di gran lunga superiori» spiega ancora Bassetti.
Perché tanta resistenza alle vaccinazioni?
«Stupisce tanta resistenza nei confronti delle vaccinazioni, che però non è nuova nel nostro Paese. Oggi si sentono molti genitori e docenti preoccupati per i rischi di contagio Covid nelle scuole, quelle stesse scuole dove per 30 anni solo 1 bambino su 5 non era vaccinato contro il morbillo: c’è voluta una legge per arrivare a una copertura del 95%» dice l’esperto infettivologo del San Martino.
Covid, cosa sappiamo sull’immunizzazione
Se le vaccinazioni, anche quelle tradizionali, hanno dunque un’azione protettiva nei confronti anche del Sars-Cov2, cosa sappiamo finora sugli altri fattori immunizzanti? «Quello che si può dire oggi è che chi è venuto in contatto con il virus dovrebbe essere coperto per un periodo dai 5 ai 12 mesi, almeno per quanto riguarda la presenza di anticorpi IgG (quelli che attestano che è avvenuta un’infezione e che si differenziano dalle IgM, le immunoglobuline presenti quando c’è un’infezione in atto, NdR). Ma è presto per poter dare indicazioni certe: conosciamo la malattia da sei mesi, quello che arriverà sarà il primo inverno che affronteremo post-Covid» dice Bassetti.
Dovremo aspettarci più o meno contagi? «È difficile fare previsioni. Al momento sappiamo che stiamo facendo molti tamponi (il 1° settembre è stato raggiunto il record di 103mila nelle 24 ore), con circa 30mila positivi, ma molti asintomatici. Io mi auguro che la percentuale di coloro che sono già entrati in contatto con la malattia sia superiore al 2%, come sembrerebbe dai dati epidemiologici, e che possa arrivare almeno all’8/9%. A Bergamo e Brescia, zone di focolai importanti, si è raggiunto anche il 30%, segno che una persona su 3 è venuta a contatto con il virus e presumibilmente non dovrebbe riammalarsi nei prossimi mesi invernali perché dovrebbe avere sviluppato una forma di difesa nei confronti del Covid. Personalmente, quando arriverà il vaccino contro il coronavirus io lo farò, anche se avessi già sviluppato la malattia, perché aumenterebbe le difese. Ma sono consapevole che ci sono posizioni differenti, comprese quelle dei no-vax, che però ritengo antiscientifiche» conclude Bassetti.