Un urlo. Un borsone da allenamento che cade sul terreno bagnato. Un uomo con le mani alzate al cielo. E subito dopo le lacrime. Tante, tantissime. Era la sera del 9 novembre 1989, quell’uomo era mio padre. È una delle immagini indelebili della mia infanzia. Avevo 12 anni e mia madre gli aveva appena urlato dalla finestra di casa: «Il muro… Il muro è caduto!». E lui: «Quale muro? Non capisco…». La pioggia e le auto che passavano mozzavano le parole che restavano quasi sospese. A rendere più difficile la comprensione c’era il fatto che per molto tempo nessuno, in famiglia e non solo, aveva osato sperare che potesse accadere. Invece era vero. Non era crollato un muro qualsiasi, era crollato quel muro. Il “mio”, il “nostro” muro. La storia stava cambiando, finalmente.
Abbiamo chiamato tutti nel cuore della notte
Perché si sgretolasse davvero sotto le picconate di centinaia di migliaia di persone accorse a Berlino da tutto il mondo ci sarebbe voluto ancora parecchio tempo, ma proprio in quelle ore gli abitanti dell’Est stavano attraversando in massa un varco rimasto inviolato per 28 anni. L’avremmo visto e rivisto per giorni interi su tutti i tg. Quella sera per me, ma soprattutto per i miei genitori, fu un mix di emozioni difficili da raccontare. Lacrime, appunto. E poi risate, tante risate. E il tentativo convulso di telefonare nel cuore della notte ad amici e parenti rimasti al di là del muro: a Sofia, Bulgaria. È lì che siamo nati tutti e 3 ed è lì che avevo vissuto fino a poco prima di quel 9 novembre.
La storia ci sorprese ad Avezzano, nel cuore dell’Abruzzo, dove ci eravamo trasferiti da appena 2 mesi. Motivo: mio padre, ex olimpionico di pallavolo e tra i primi stranieri a giocare e allenare in Italia negli anni ’70, era dovuto rientrare in patria per evitare che la sua famiglia venisse esiliata. Ma da allora aveva fatto l’impossibile per tornare, e ci era riuscito grazie a un programma di “export di talenti” messo a punto da diversi Paesi del Patto di Varsavia alla fine degli anni ’80 con il duplice obiettivo di ammorbidire la linea altrimenti durissima del regime e incassare soldi freschi.
Il 40% del suo stipendio da allenatore finiva infatti allo Stato, e sarebbe stato così per 3 anni, al termine dei quali avremmo avuto l’obbligo di rientrare in Bulgaria. Ma la caduta del muro di Berlino, oltre alla storia, cambiò anche i nostri destini. Rimanemmo in Italia, dove papà e mamma erano arrivati per darmi un futuro migliore. Sembra un’espressione banale, ma è ciò che ancora oggi mi ripetono entrambi. Lo fanno quasi ogni giorno, anche se sono passati 30 anni. E io so che è così. Perché, seppure sbiaditi dal tempo, nutro ancora ricordi molto chiari sulla mia vita nel blocco comunista. E su ciò che significa vivere in una dittatura. Anche per una bambina. Ecco 3 esempi a caso.
C’era sempre qualcuno a dirti come dovevi agire
Sono stata sospesa alle elementari (alle elementari!) per avere sfidato le rigidissime regole dell’Istituto Lenin, presentandomi a scuola in jeans, all’epoca catalogati come simbolo dell’Occidente nemico. Sono cresciuta, come tutti, con il mantra di non raccontare nulla di quello che sentivo tra le mura domestiche. Bastava una barzelletta contro il regime per finire nei campi di concentramento e i miei genitori avevano amici a cui era toccata quella fine.
Un po’ come nel film Le vite degli altri, solo che questa era la nostra. Infine, il capitolo consumi. Per tutta l’infanzia ho visto solo negozi vuoti o riforniti con merce di scarsa qualità perché i prodotti occidentali (jeans compresi) potevano essere acquistati solo nei negozi Corecom, che accettavano esclusivamente valuta straniera. Peccato che soltanto la nomenklatura, i diplomatici o qualche sparuto turista disponessero di dollari, marchi e lire. Vi sembra una cosa da niente? Invece è l’essenza di tutto ciò che accadeva al di là della Cortina di ferro. Semplicemente, nessuno poteva fare ciò che desiderava: c’era sempre qualcun altro a decidere cosa fosse giusto per noi.
Avrei tentato di fuggire a ogni costo
Potrei andare avanti per pagine e pagine. Perché i ricordi emergono poco alla volta. Così come le notizie frammentarie che un mio prozio riusciva a captare sulle onde corte di Radio Free Europe con un apparecchio rudimentale che lui stesso aveva costruito. Insisteva sempre perché anch’io, che ero solo una bambina, ascoltassi. «Devi avere la mente libera. Sempre». Avere la mente libera, in una dittatura, non è affatto semplice. Di qualunque colore essa sia. Perché devi combattere quotidianamente con qualcuno che si arroga il diritto di decidere per te.
Ho pensato più volte a come sarebbe stata la mia vita se non fossimo arrivati qua. E sono convinta che in ogni caso avrei tentato la fuga, indipendentemente dai rischi che avrebbe comportato. Oggi stiamo assistendo in tutto il mondo a quello che il sociologo della politica Larry Diamond ha definito “recessione democratica”. E basta accendere la tv, sfogliare i giornali o scorrere i social per captare afflati antisistema di ogni tipo. Ancora una volta di colori politici tra i più diversi. Ma a mio avviso tutti con un minimo comune denominatore: chi parla non ha mai provato sulla propria pelle la privazione delle libertà anche più elementari. E sono certa che non avrebbe alcuna voglia di farlo. Nessuno ce l’ha. Nessuno.
La fine della guerra fredda
Le proteste andavano avanti dall’inizio dell’estate 1989, dopo che il leader sovietico Michail Gorbaciov, visitando i Paesi del Patto di Varsavia, aveva consigliato a tutti un percorso di riforme democratiche. Erich Honecker, presidente della Repubblica democratica tedesca, era il più restio ad accettarle e dovette fare i conti con la fuga di molti tedeschi dell’Est verso Cecoslovacchia e Ungheria, che avevano già aperto le frontiere con la Germania federale. L’8 novembre il governo concesse il diritto di espatrio ai cittadini e il pomeriggio successivo stabilì che venissero aperti anche i varchi che dall’agosto 1961 dividevano Berlino Est dal resto della città, rimasta sotto il controllo occidentale. Fu l’inizio del processo che portò al collasso dell’Urss e alla riunificazione tedesca.
Una mostra, un film e un libro
La caduta del muro di Berlino è uno degli spartiacque della storia e sono molte le iniziative culturali che ne celebrano il trentennale. Fra le più originali la mostra Berlin 1989, alle Gallerie d’Italia di Napoli fino al 19 gennaio 2020, che confronta le pitture tedesche di Est e Ovest. Torna al cinema, in versione restaurata, Goodbye Lenin, pellicola cult del 2002 che racconta il periodo successivo alla riunificazione. Oltre ai molti saggi sul tema, è appena uscito anche un romanzo: Il palazzo delle lacrime di Paolo Grugni (Laurana), una spy story ambientata nel 1976 che cattura alla perfezione lo spirito della città divisa e dei suoi abitanti sfiniti.