Allattato al seno per 9 giorni, ben curato, nato da genitori che hanno messo accanto a lui un biglietto con una promessa: «Ti vorremo sempre bene». Il 19 luglio, in una parrocchia di Bari, il piccolo Luigi è stato solo l’ultimo di una serie di neonati lasciati nelle culle per la vita, versione contemporanea della medievale ruota degli esposti soppressa nel 1923. In queste speciali incubatrici, che all’esterno garantiscono l’anonimato ma all’interno sono monitorate h24, «al Policlinico di Napoli 3 anni fa sono arrivati Monica e Alessandro, nel 2016 Azzurra ad Abbiategrasso, Giovanni alla Mangiagalli di Milano e Francesco al Careggi di Firenze. L’anno precedente Pasqualino è stato accolto a Giarre, in provincia di Catania» ricorda Rosa Rao, volontaria del Movimento per la vita (Mpv), che a metà degli anni ’90 ha promosso l’iniziativa per contrastare l’abbandono dei neonati nei cassonetti o in luoghi non protetti.

«Le culle, oltre a salvare bambini, diffondono un messaggio: c’è una comunità pronta a prendersene cura» chiarisce Marina Casini, presidente del Mpv. «Sono riscaldate all’interno, monitorate con una videocamera, collegate a un allarme acustico e visivo che informa tempestivamente della deposizione di un neonato». Al Policlinico Federico II di Napoli il professor Francesco Raimondi, responsabile dell’unità di Neonatologia e referente della culla termica installata vicino all’ingresso secondario, si è preso cura dei 2 neonati lasciati nel 2017. «È stata un’emozione fortissima: il primo l’ho raggiunto dal reparto alla culla in motorino, ancora prima che arrivasse l’ambulanza: volevo visitarlo subito. Bisognerebbe far conoscere di più questa rete di impianti e anche la possibilità del parto in anonimato». Proprio nei giorni scorsi Raimondi ha dimesso un neonato di madre segreta, andato in affido preadottivo. «Qui succede una volta all’anno, su 2.600 nati. A me non spetta giudicare, solo tutelare madre e bambino».

Alla base di una scelta così dolorosa per la mam- ma c’è spesso un forte disagio psichico e sociale

Quella di Napoli è una delle culle termiche di “Ninna ho”: grazie a questo progetto nazionale promosso dal 2008 da Fondazione Francesca Rava e dal Network KPMG in Italia, 7 ospedali, di cui 5 con culle termiche installate da Ninna ho, hanno creato una rete di sensibilizzazione sul tema. «A Varese il 17 dicembre 2007 era stato trovato un neonato in un cassonetto» spiega Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione. «Con il network KPMG ci siamo impegnati perché ciò non accadesse più e per sensibilizzare attraverso opuscoli in 6 lingue sul diritto al parto anonimo in ospedale, che tutela sia la madre sia il bambino. La prima culla Ninna ho è stata installata proprio a Varese». La Società italiana di neonatologia, insieme al progetto Ninna ho, monitora il numero di bambini non riconosciuti in ospedale: si stimano circa 300 neonati all’anno, meno di 1 su 1.000 nati. «In base all’ultimo report, il 37% delle donne sono italiane; circa la metà hanno fra i 18 e i 30 anni, altrettante sono nubili. Se il 58,9% ha fissa dimora, ben l’84% partorisce in una città diversa dalla propria» riferisce il professor Fabio Mosca, presidente della Sin.

Alla base di una scelta così dolorosa ci sono «il disagio psichico e sociale (37,5%), la paura di perdere il lavoro o difficoltà economiche (19,6%)». Anche i problemi di salute e le disabilità del nascituro spaventano. Ma cosa succede dopo che il piccolo è stato lasciato nella culla termica o in ospedale? Viene affidato alle cure dei medici, che avvisano la direzione sanitaria o l’assistente sociale in servizio nel nosocomio; il caso è segnalato al Tribunale per i minorenni competente. «La dichiarazione di nascita viene resa dal ginecologo o dall’ostetrica che ha assistito al parto o ha preso in carico il neonato. Sul certificato compare la dicitura: “Nato da donna che non consente di essere nominata” e il tribunale dichiara subito lo stato di abbandono e l’adottabilità» sintetizza Stefania Stefanelli, professoressa di diritto privato all’università degli studi di Perugia e co-autrice del volume Il parto anonimo. Profili giuridici e psicosociali dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Artetetra edizioni). «Tuttavia la procedura di adozione si sospende se uno dei genitori chiede al Tribunale per i minorenni di avere tempo fino a 2 mesi per riconoscere il figlio, durante i quali deve essere mantenuto il rapporto con il bambino. Un’altra sospensione è prevista in caso di madri con meno di 16 anni, soglia minima per il riconoscimento del figlio, fino al raggiungimento dell’età prevista».

In alcuni casi il neonato è accolto in una famiglia affidataria

A coccolare i neonati senza famiglia in ospedale ci pensano anche i volontari di varie associazioni: a Brescia i Bambini di Dharma, per esempio, a cui possono rivolgersi pure le mamme in difficoltà durante la gravidanza ([email protected]), mentre a Napoli c’è “Il primo abbraccio”, che un anno fa ha visto adottare un bambino affetto da varie patologie e accudito per mesi in ospedale. Di solito la dimissione avviene dopo una decina di giorni. Se il Tribunale non ha ancora individuato la coppia idonea all’adozione, il piccolo è accolto temporaneamente in una famiglia affidataria. Come quella di Marilia Zenzaro e Andrea Botti, a Ferrara, con 5 figli biologici dai 26 agli 11 anni, una adottiva di 8 e una dozzina di esperienze di affido temporaneo, sempre di neonati. «Vogliamo dare ai più piccoli “una pancia su cui appoggiarsi”, il calore necessario. Poi il distacco va sempre elaborato e siamo rimasti in contatto con alcuni genitori adottivi» confida Marilia. È successo con Emanuela e Roberto, coppia che aveva già l’idoneità per l’adozione nazionale e internazionale e che dalla provincia di Modena ha raggiunto casa Botti il 18 gennaio di 7 anni fa per incontrare Lorenzo, quando aveva 20 giorni. «Marilia e Andrea ci hanno guidati a conoscere nostro figlio, abbiamo fatto insieme il primo bagnetto, dando a Lorenzo il tempo di abituarsi a noi» ricorda Emanuela. «Provo gratitudine anche per la mamma biologica, che lo ha fatto nascere in ospedale. Lui sa che è stato adottato».

Diventati adulti, «a 25 anni i figli partoriti in anonimato possono chiedere al Tribunale per i minorenni competente di rintracciare la madre biologica per verificare se vuole revocare il segreto, conoscerli o restare anonima ma almeno dare informazioni di sé. Quelli lasciati nelle culle non hanno neppure questa possibilità» osserva la professoressa Stefanelli. «La ricerca delle origini e dell’identità resta un’esigenza profonda e costituisce un diritto fondamentale anche con splendidi genitori adottivi. Perché l’abbandono resta in ogni caso un trauma da rielaborare» conclude Emilia Rosati, esperta di counseling adottivo, tra i fondatori del Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche. «Io stessa ho vissuto questa esperienza e fa bene sapere che chi ti ha messo al mondo ha desiderato conoscerti un giorno, anche se quando lo scopri non c’è più. Ma puoi ritrovare fratelli, sorelle, parenti. Le radici non si possono cancellare».

16 regioni hanno le incubatrici termiche

Sono una sessantina le culle termiche aperte dal 1995 in Italia, dalla Val d’Aosta alla Sicilia. Mancano in Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Calabria, Sardegna. Erano chiamate inizialmente “cassonetto per la vita”: la prima è stata inaugurata a Casale Monferrato (Al), l’ultima 2 anni fa a Vigevano (Pv) vicino al pronto soccorso dell’ospedale San Carlo. Vengono promosse da associazioni e fondazioni, ospedali, parrocchie, istituti religiosi, Comuni, Asl. Informazioni su Culle per la vita, numero verde 800813000.