Ci sono fatti che accadono nella realtà e che non hanno però ancora una parola che li descriva. Allora, talvolta, bisogna inventarne di nuove. Fu così alla fine della seconda guerra mondiale: furono trovate le espressioni “crimine contro l’umanità” e “Olocausto”. Negli ultimi anni, invece, abbiamo preso consapevolezza di una guerra silenziosa che si consuma un po’ alla volta – e per questo pare meno pericolosa – nelle pieghe della nostra società pacifica: l’uccisione sistematica delle donne da parte degli uomini.

Si è imposta la parola femminicidio, che suona però strana ogni volta che la pronunciamo, come se ancora non appartenesse al nostro vocabolario. Eppure se ne trova traccia già nel 1801, in una guida umoristica su Londra. L’autore la usa, con ironia, per definire la corruzione morale di una ragazza “per bene” da parte di un lord: risvegliare le capacità seduttive di una donna è “femminicidio”. Nel 1827 viene usata per la prima volta in senso letterale nel libro-confessione del serial killer William MacNash e nel Law Lexicon di John Wharton del 1848, un bignami della giurisprudenza inglese. Sparisce però dal dizionario nelle edizioni successive, così come dal dibattito pubblico.

Bisogna aspettare il 1990 perché si apra un confronto consapevole sulla parola “femminicidio”. A Ciudad Juarez, in Messico, vengono scoperti centinaia di cadaveri di donne uccise per mano di uomini, rimasti impuniti. Per la prima volta la “somma” di questa guerra che fa vittime un po’ alla volta diventa visibile tutta assieme. Protagoniste del dibattito sono la criminologa americana Diana Russell, che, ignorando i precedenti dell’800, prende in prestito la parola “femicide” da una raccolta di racconti della scrittrice Carol Orlok, e l’attivista messicana Marcela Lagarde. Il femminicidio diventa l’uccisione delle donne da parte degli uomini in quanto donne, poiché escono dal ruolo e dalle aspettative imposte dal maschio. Complici del femminicidio sono le istituzioni che lo permettono.

In Italia la parola arriva nel 2001, in un articolo di Repubblica sulla repressione delle donne da parte dei talebani in Afghanistan. Da allora entra nell’uso comune, anche se scatena discussioni fra filosofi e giuristi: per alcuni è offensiva perché considera la donna una “femmina”. Nel 2008 esce un libro fondamentale della giurista Barbara Spinelli: Femminicidio (Franco Angeli). Fa chiarezza sul significato della parola, certa che una più precisa definizione possa portare a una nuova legislazione.

Nel 2013 arriva un decreto legislativo che si completa quest’anno con il Codice rosso. Entrambi sono costruiti attorno alla parola femminicidio. È questo il centro della questione: dare un nome a un problema è il primo modo per renderlo reale, perché, dal momento in cui lo si può esprimere, lo si può anche condividere.