Il campione e il doping. Vincitore di un Giro d’Italia, di una Liegi-Bastogne-Liegi e di una Milano-Torino, Danilo Di Luca ha raccontato la sua esperienza di uomo e di atleta in un libro scritto con Alessandra Carati, Bestie da vittoria (Piemme). Abruzzese, 40 anni, professionista dal 1999, ribattezzato il killer, pedalata sfrontata e gran fame di trionfi, nel 2013 è stato il primo corridore italiano a essere squalificato a vita. “Nel ciclismo tutti sanno la verità. Ma la verità è inaccettabile”: queste le frasi che riassumono in copertina un libro doloroso e illuminante. Una denuncia e una confessione. Rabbia e fragilità insieme. «Ogni ciclista sa che ci si dopa, eppure nessuno parla» sintetizza Di Luca. «Non si pensa di sbagliare, si crede di fare ciò che un ciclista professionista deve fare».
Che cos’è questo libro per lei? È la mia vita. E per fortuna che sono vivo. È stata dura. Sono sceso all’inferno e sono tornato. Merito del mio carattere e delle persone che mi sono vicino.
Perché lo ha scritto? Mi sono preso la responsabilità di raccontare la mia verità. Mi hanno fatto passare per un appestato, ma non è così. Io facevo solo il mio mestiere. Tutti nel nostro ambiente sanno come funzionano le cose. È un sistema di cui finisci per fare parte. La mia è una denuncia a favore dei miei ex compagni corridori, non contro di loro. Noi siamo l’ultima ruota del carro. Non ti obbligano a doparti, no. Ma devi vincere. E, se non vinci, non sei nessuno.
Lei si dopava per vincere? Mi sono dopato quando ho deciso di diventare professionista e sono entrato nel sistema. Da piccolo vincevo senza doping, sia da juniores, sia da non professionista. Poi, quando ho fatto il salto, ho dovuto adeguarmi, altrimenti avrei dovuto scegliere un altro mestiere… Ma amavo troppo la bicicletta.
Si è pentito? Ho due risposte a questa domanda. La prima è: no, perché ho scelto liberamente di fare il mio lavoro e di farlo nel modo migliore. La seconda è: sì, ma lo posso dire solo adesso, a 40 anni. In effetti, il ciclismo mi ha dato tutto e mi ha tolto tutto.
Il doping c’è solo tra i professionisti o anche fra gli amatori? È diffuso anche nel mondo degli amatori. Ed è un doping che non concepisco. Per vincere un prosciutto o arrivare prima di un amico non vale la pena. Se è un hobby e non un lavoro, perché doparsi?
E fra i ragazzi? Bisogna preoccuparsi della diffusione del doping nelle categorie giovanili? No, non esiste il doping fra i giovanissimi. Il rischio c’è quando arrivi al bivio e passi professionista. Fino ad allora puoi stare al di qua del limite. È quando fai il passo che devi decidere: nel professionismo siamo noi a scegliere il nostro destino. A parte il caso di Lance Armstrong, che ha architettato tutto un sistema di squadra, il doping è sempre una cosa personale.
Com’è la vita di un corridore? Non è una bella vita, soprattutto oggi. Fai il mestiere che ti piace, sì. Però la vita è dura: 4-6 ore al giorno di allenamento, attenzione massima all’alimentazione, mai spiaggia e mare, sempre a letto presto… Io ho vinto per 2 motivi: perché madre natura mi ha dato il talento e perché ho fatto la vita rigorosa dell’atleta.
E poi si è aiutato con il doping. Sì, ma il doping dà solo il 5-7% in più, non ti fa diventare un campione se già non lo sei. Affinché tu, campione, possa arrivare davanti agli altri, bisogna correre tutti alla pari, senza doping. Si rincorre una vittoria che ripaghi dei sacrifici compiuti nel corso di mesi, intere stagioni, anni.
Capisco la gioia per una vittoria. Ma se la vittoria è conquistata con frode e vergogna? Se sei dentro questo mondo, non ti viene in mente che hai vinto perché sei dopato e quello che arriva secondo non lo è. Succede anche quando tu arrivi secondo: non pensi che il primo si sia dopato più e meglio di te. Pensi soltanto che è stato più forte. Così funziona. Il problema è che bisognerebbe chiedere a tutto lo sport di non doparsi. Si dovrebbe imporre alle case farmaceutiche di inserire una sostanza tracciante nei loro prodotti. Ma dubito che si voglia fare.
Che cos’è il ciclismo per lei? Rimane la cosa più appassionante che uno possa fare, anche solo allenandosi. È uno degli sport più belli al mondo: per il vento in faccia, per il senso di libertà che offre, per il gusto della fatica, per il gusto della strada, il gusto della vittoria… Di brutto, purtroppo, a livello professionistico, c’è l’ambiente, un ambiente dove il corridore è sempre sotto schiaffo, sotto ricatto, tirato come una corda di violino. Quando mi hanno radiato, non era già più il mio mondo da un pezzo.
Adesso che cosa fa? Costruisco biciclette con il mio marchio, Kyklos. Vivo ancora con le bici, non più con il ciclismo.