Si intitola Storia della mia ansia (Mondadori, 19 euro) il sesto libro di Daria Bignardi. In questo nuovo romanzo la protagonista è Lea, una donna che ogni giorno deve fare i conti con un difficile equilibrio tra lavoro, famiglia, ansia, amore, frustrazione e malattia. Daria Bignardi, è una giornalista, autrice, conduttrice tv e scrittrice. Nel 2009 pubblica il suo primo libro, Non vi lascerò orfani, con cui vince il premio Elsa Morante per la narrativa, il premio Rapallo e il premio del Libraio Città di Padova. Qui ci racconta del suo rapporto con l’ansia e di come ha affrontato le sue paure.
Credo di aver cominciato a soffrirne da molto piccola,
ma solo pochi anni fa ho capito che quel senso di inquietudine che agitava le sue ali gialle dentro al mio petto, era proprio ansia. Come la madre di Lea, la protagonista di Storia della mia ansia, anche mia mamma soffriva di ansia ossessiva e la sua malattia ha condizionato tutta la mia vita. Per moltissimo tempo ho odiato l’ansia, non mia madre che adoravo, tanto da negarla, rimuoverla, vergognarmi di lei. Non capivo che quell’energia che mi guidava o paralizzava, che mi obbligava alle prove più difficili e faticose anche quando non mi riguardavano fino in fondo, che mi spingeva a stringere legami con persone che mi mettevano a disagio, che non mi abbandonava nemmeno mentre dormivo, che mi faceva (e mi fa) svegliare prestissimo con mille pensieri di cose da fare, dire, scrivere, era una forma dell’ansia che avevo odiato in mia madre. Un ricordo dei miei cinque anni l’ho prestato a Lea Vincre, protagonista dell’ultimo libro: sono le otto di sera e di nascosto da mia madre porto indietro di dieci minuti le lancette della sveglia di cucina perché se alle otto in punto mio padre non arriva a cena mia madre mi infila il cappotto sul pigiama e mi porta fuori con lei a cercarlo, al freddo, nella nebbia di Ferrara. È successo davvero e io ero spaventatissima, non tanto dalle cose che faceva la mamma, quando sei piccolo tutto quello che fa lei sembra legittimo e normale, ma dal suo dolore devastante, insopportabile, che arrivava fino a me, anche attraverso le pareti, e che sentivo dentro, in profondità, attorno al diaframma, proprio “dentro al cuore” pensavo io da piccola. Dentro al petto, come ho capito più tardi. È quello il luogo dell’ansia.
Ho sempre cercato di proteggere mia madre dal dolore,
e poi di proteggere tutte le persone che vedevo o sentivo soffrire, tranne me stessa. E probabilmente l’ho sempre fatto male, perché non lo so se l’affetto, la cura, gli slanci, quel che potevo dare e fare io, possono aiutare davvero chi soffre. «Ognuno è responsabile del suo dolore» dice a un certo punto del romanzo Shlomo, il gelido ma affidabile marito di Lea. Forse ha ragione lui. Forse per questo ho sempre cercato di avere vicino persone diverse da me: costanti, autonome, solide, pazienti, non ansiose. Che però a volte non sono sensibili e fanno fatica a capire e ad accettare i tormenti di chi soffre d’ansia.
L’ansia può essere pericolosa perché non fa sentire la fatica,
lascia nudi, scoperti, fragili, vulnerabili, sfiniti. Nei momenti peggiori può condizionare pesantemente la vita, bloccare, consumare: perché ci si fissa sulle cose negative e si perde di vista tutto il resto, salvo disperarsi quando poi magari le cose belle, ignorate o date per scontate, si perdono per davvero. Ma può essere anche una bellissima energia creativa, una marea che ti porta fin dove non avresti mai pensato di arrivare. Credo che tutto quello che ho fatto nella vita, dall’andarmene dalla mia piccola città di provincia, quando avevo vent’anni per cercare lavoro a Londra, a venire a Milano dividendo un’appartamento in periferia con cinque sconosciuti, fino a riuscire a lavorare nei giornali e poi in televisione, l’ho sempre fatto ascoltando e seguendo un bisogno insopprimibile e urgente. Prima di libertà e poi di creare qualcosa da condividere con gli altri per riuscire a placare l’ansia.
È stata l’ansia a costringermi a coltivare la mia vocazione, quella per la scrittura e la lettura
Da bambina leggevo e scrivevo in modo compulsivo. Leggevo sempre: prima le favole, poi i libri per ragazzi, poi tutti i libri che trovavo in casa, dai classici russi e francesi che mia madre aveva studiato all’Università alla Storia d’Italia di Montanelli di mio padre. E quando finivo di leggere due o tre volte tutti i libri che c’erano in casa andavo a comprarli usati in libreria, in edicola, nelle bancarelle o li prendevo in prestito in biblioteca. E appena avevo finito i libri, leggevo i giornali, le riviste, l’etichetta dell’acqua minerale, i bugiardini delle medicine, le regole dell’ascensore, i cartelloni stradali. Non potevo fare a meno di leggere e di scrivere, incessantemente. «Ti cavi gli occhi» diceva mia madre, che pure era una grande lettrice, ma mai quanto me che non stavo mai senza un libro o un giornale davanti agli occhi. Anche quel bisogno credo fosse un effetto dell’ansia, di quel viatico materno che mi ha consegnato all’inquietudine eterna ma anche alla mia vita, al mio destino, al mio bisogno di scrivere, creare, condividere, e che ha fatto di me, nel male e nel bene, ciò che sono.