Quel video è rimasto, e rimarrà, impresso nella nostra mente. Le buste di pane gettate a terra e calpestate sono state il culmine delle proteste degli abitanti del quartiere romano di Torre Maura per l’arrivo di 3 famiglie rom che avrebbero dovuto essere ospitate in un centro di accoglienza. Pochi giorni e a Casal Bruciato, altro quartiere problematico della Capitale, alcuni residenti hanno impedito l’ingresso in un alloggio popolare al nucleo italiano di etnia sinti che ne aveva diritto in base alla graduatoria comunale. Dopo questi episodi i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono dichiarati d’accordo sulla necessità  di chiudere i campi rom, vista l’emergenza. Ma è davvero di emergenza che parliamo?

I progetti (e i fondi) per l’inclusione esistono

Gli ultimi dati disponibili di Viminale e Istat censiscono fra 120.000 e 180.000 individui di etnia rom, sinti e caminanti (le 3 categorie principali della famiglia nomade, a loro volta divise in 122 sottogruppi). Di questi, il 50% ha nazionalità italiana. E 4 su 5 vivono in regolari abitazioni, lavorano e studiano esattamente come gli altri cittadini italiani o stranieri nel nostro Paese. In campi e baraccopoli ci sono dunque circa 25.000 persone: ovvero, lo 0,04% della popolazione italiana, dislocato tra 127 insediamenti formali (cioè riconosciuti dalle istituzioni e allacciati ai servizi essenziali) e alcune centinaia di siti informali.

Nessuna delle 2 tipologie dovrebbe esistere, dal momento che più volte la Ue si è espressa per il loro superamento, promuovendo iniziative e stanziando fondi per l’integrazione delle etnie sparpagliate in tutta Europa. «Non sono numeri clamorosi» spiega Carlo Stasolla, presidente della onlus 21 luglio. «Ma nel 2019 abbiamo assistito già a 20 sgomberi forzati in 3 mesi: continuando di questo passo, a fine anno ne avremmo il doppio rispetto al 2018». Sgomberi che per Stasolla «sono controproducenti perché danno solo una percezione di pericolo alle persone, senza risolvere alla radice il problema. Anzi, spesso provocano un’ulteriore frammentazione: a Roma 1.200 persone sono sparse in 300 insediamenti, il che vuol dire una media di 4 per campo».

Contrariamente agli annunci della politica, poi, difficilmente i rom potranno essere espulsi. Nei campi formali, il 44% degli abitanti ha la cittadinanza italiana; il 34% proviene dall’ex Jugoslavia ed è quindi apolide, «motivo per cui non potrebbe essere rimpatriato» spiega Stasolla. Negli insediamenti informali, prevalgono bulgari e rumeni: cittadini comunitari e, dunque, non espellibili. La situazione, peraltro, potrebbe degenerare:«Molti rom hanno il permesso di soggiorno umanitario che non sarà più rinnovabile a causa del Decreto Sicurezza. Presto 1.000 persone, alcune delle quali vivono da generazioni in Italia, potrebbero presto restare senza documenti» dice Stasolla.

Ma raramente vengono realizzati

Come mai, nella percezione collettiva, i rom vengono spesso associati alla delinquenza? «Non c’è alcun dato ufficiale che leghi le 2 cose» spiega Ranieri Razzante, direttore del Centro di ricerca su sicurezza e terrorismo. «A volte c’è un’identificazione semplicistica che vede il rom come il delinquente che ruba il portafogli in metropolitana. La percezione di insicurezza, d’altronde, è creata dal reato di strada». La soluzione sta nelle politiche di inclusione, «sempre efficaci, se sono gestite bene. Perché la delinquenza aumenta laddove c’è degrado».

Non a caso, già dal 2012 è in piedi la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom, che prevede attività di mediazione linguistica e sociale per adulti e bambini e l’inserimento progressivo delle famiglie nelle graduatorie per case e agevolazioni, in cambio di lavori socialmente utili e frequenza scolastica assicurata. E anche se queste misure sono rimaste largamente inapplicate, in Italia chi ha provato a seguirle è riuscito a superare la logica emergenziale dei campi.

A Moncalieri, in provincia di Torino, i 6 siti prima esistenti sono ora 2, gestiti direttamente dal Comune. «Non abbiamo voluto scegliere tra legalità e dignità» spiega Silvia Di Crescenzo, assessore alle Politiche sociali. «Chi non era interessato al riconoscimento del proprio status, non avrebbe avuto spazio nella nostra città. Sul resto della comunità abbiamo fatto un investimento di inclusione sociale, chiedendo però impegni precisi, a cominciare dai piccoli: tutti a scuola. Oggi i bambini rom hanno un indice di frequenza uguale agli altri e sono in regola col calendario vaccinale. L’obiettivo è chiudere entro giugno anche gli ultimi 2 campi, dove 50 rom su 80 sono già stati inseriti in contesti abitativi».

Esperienza simile anche a Sesto Fiorentino, dove dagli anni ’80 esiste un campo nomadi. «Il nostro impegno» racconta l’assessore Camilla Sanquerin «è focalizzato su più fronti, a partire da regolarizzazione giuridica e scuola, con bus e mensa gratuita per i bambini del campo: negli ultimi 3 anni il tasso di assenza è sceso del 10% e ora molti sono iscritti alle superiori». L’obiettivo, anche in questo caso, è la chiusura del campo, prevista entro l’estate. «L’aspetto fondamentale» spiega ancora Sanquerin «è non creare ghetti. I rom sono dislocati su tutto il territorio, per aumentare la loro consapevolezza di essere cittadini come gli altri».

I numeri in Italia

74 i campi rom nel Nord Italia, due terzi dei quali in Lombardia. Qui l’87% degli abitanti è italiano. 41 i campi rom nel Centro Italia, 16 dei quali a Roma, che ospitano al 90% stranieri. 16 i campi rom nel Sud Italia, 6 solo a Napoli. Qui li stranieri oggi sono l’88% del totale.

La situazione all’estero

Nell’Unione europea i nomadi sono quasi 11 milioni. Romania a parte, leader di presenze è la Spagna con 750.000 (1,6% della popolazione). Madrid, con Svezia e Germania, è all’avanguardia nella gestione: nei 3 Paesi non ci sono campi rom e la Ue ha cofinanziato progetti di inclusione lavorativa, sanitaria e scolastica. In Francia e Inghilerra, dove le dinamiche (e gli episodi di razzismo) sono più vicini a noi, esistono comunque regole più rigide.