C’erano una volta gli influencer, che avevano un vasto seguito e indicavano tendenze e – perché no – prodotti da comprare. Oggi, però, quel rapporto di fiducia che li legava ai loro followers sembra essersi incrinato, complici alcuni incidenti di percorso, come il “caso Ferragni” e il Pandoro-gate. Ecco perché sta prendendo piede un’altra tendenza: l’affermazione dei cosiddetti “deinfluencer”, coloro che sconsigliano acquisti e prodotti.

Deinfluencer: chi sono

Con il termine “deinfluencing” si indica la nuova tendenza, in aumento soprattutto su TikTok ma in generale sui social, a disincentivare l’acquisto massivo di prodotti, di qualunque tipo. «È un trend che ha preso sempre più piede da qualche tempo, soprattutto negli Stati Uniti, ma che si sta affermando di recente anche in Italia», conferma Elena Farinelli, esperta di social media e docente di Influencer marketing presso l’Istituto Europeo di Design-IED. «Esattamente come finora ci sono stati gli influencer che indicavano cosa comprare, oggi si stanno diffondendo i deinfluencer, che spiegano cosa non acquistare, spesso con recensioni negative relative a prodotti e marchi specifici», aggiunge Farinelli.

Quanti tipi di deinfluencer

«Si tratta di un fenomeno interessante, che segna la differenza rispetto a quanto accaduto finora sui social e, in particolare, su TikTok. Qui si possono individuare due tipi di deinfluencing: in uno rientrano coloro che sconsigliano esplicitamente alcuni tipi di prodotti, come sta accadendo da qualche tempo, per esempio, per un certo tipo di asciugacapelli o per una nota linea di shampoo e balsamo costosissimi; nell’altro filone, invece, si trovano i creator che disincentivano qualsiasi tipo di acquisto superfluo, che abbonda nella società dell’iperconsumismo e che porta ad accumulare prodotti e oggetti inutili», spiega la docente.

Il boom degli acquisti sui social

D’altro canti i dati indicano che proprio i social sono diventati un canale di acquisto privilegiato, soprattutto per i più giovani: secondo le analisi di Statistica, il settore dell’influencing marketing è cresciuto del 105% rispetto al 2021, arrivando a valere 21,1 miliardi di euro complessivi. In Italia secondo l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing vi ricorrono oltre la metà delle aziende (56,9%) per promuovere i propri prodotti. Finora le analisi indicavano che ben l’88% degli utenti del web nutriva fiducia negli influencer e in quanto promosso tramite i social. Ma qualcosa sembra essere cambiato di recente.

Effetto Ferragni e Pandoro-gate: meno fiducia nei creator

Il settore ha subito un duro colpo, soprattutto dopo il cosiddetto Pandoro-gate, che ha visto protagonista la più nota influencer italiana (e tra le maggiori anche oltreconfine), Chiara Ferragni. «Sicuramente l’effetto Ferragni si è fatto sentire. Non a caso oggi si evita la definizione di influencer a vantaggio di quella di creator. È una questione di sfumature, perché in concreto il tipo di attività rimane lo stesso, ma l’indicazione di influencer sembra aver perso fascino e soprattutto ha minato il rapporto di fiducia che prima era più forte tra i personaggi e i loro followers», spiega Farinelli.

Crisi di credibilità degli influencer

Senza arrivare a vip come Chiara Ferragni, il fenomeno di sfiducia riguarda un po’ tutti: «Il Pandoro-gate e non solo, ha danneggiato l‘immagine anche di coloro che svolgevano questo tipo di attività in buona fede», osserva l’esperta, che fa un esempio di comportamento piuttosto spregiudicato: «Nella mia città, a Firenze, c’è una influencer, dichiaratamente astemia, che promuove alcolici e non esita a comparire in campagne pubblicitarie con in mano un bicchiere di vino o un cocktail. È chiaro che questo non può che portare a non credere a ciò che dice e a una certa sfiducia generale per la categoria». Da qui l’affermazione per la tendenza opposta.

Deinfluencer: chi sconsiglia gli acquisti

Anche nel settore dei deinfluencer esistono personaggi più o meno famosi, che concorrono a far superare i 700 milioni di visualizzazioni per i contenuti di deinfluencing. Per esempio, ClioMakeUp è tra coloro che, forte della propria notorietà, non esita a postare anche recensioni non proprio lusinghiere ad alcuni prodotti, di fatto sconsigliati. Ma esistono anche creator meno popolari che esortano in modo esplicito e diretto a non comprare oggetti che non servirebbero a nulla se non a far spendere inutilmente il proprio denaro: «Esistono influencer che promuovono qualsiasi cosa, compresi fantomatici rulli per le righe del viso, come se tutti noi fossimo make up artist quando invece un semplice fondotinta potrebbe essere sufficiente». Insomma, a furia di inondare di consigli per gli acquisti, ci si è accorti dell’effetto boomerang.

Il paradosso: crisi di credibilità anche per i deinfluencer

«Va prestata comunque una certa attenzione anche nell’attività di deinfluencing e soprattutto alle parole che si utilizzano: a differenza degli Usa, infatti, in Italia esiste il reato di diffamazione prevede la punibilità per coloro che parlano male di un prodotto specifico e di un marchio. Significa che posso esortare a non comprare, per esempio, troppi rossetti che poi non utilizzerò mai, ma in linea di massima non posso recensire in modo diffamatorio uno specifico brand perché sarei querelabile», ricorda Farinelli, che mette così in guardia anche i deinfluencer rispetto a comportamenti eccessivi.

Deinfluencer: trend solo per la Gen Z

In generale, comunque, anche il nuovo fenomeno riguarda soprattutto la Gen Z e i più giovani: «Il fattore età in questo settore conta molto: le statistiche ci indicano non solo che i maggior fruitori di social come TikTok sono i 20enni o anche i più giovani, ma che proprio loro ormai comprano quasi esclusivamente tramite questi canali – sottolinea l’esperta – Il 55-60% delle ricerche e dello shopping avviene tramite social media. Non a caso già qualche tempo fa Google aveva affermato che il suo peggior rivale era proprio TikTok, dove i ragazzi e le ragazze effettuano le cosiddette discovery search, ossia le ricerche di prodotti, attività ed esperienze, viaggi compresi».