Su tutti i giornali, durante le feste, si è parlato di Annamaria Franzoni e di suo marito Stefano Lorenzi, tornati per la prima volta dopo quasi 20 anni a passare i giorni intorno alla fine dell’anno nella villetta di Cogne. La villetta stessa, come fosse un horror, ha una sua vita, per noi. L’abbiamo vista subito dopo l’incidente, Annamaria Franzoni con uno sguardo indimenticabile impresso sulla faccia proprio lì davanti. L’abbiamo vista scandagliata dalle forze dell’ordine. L’abbiamo vista prima del fatto, una villetta come un’altra immersa nel nulla.
Cos’è successo in quella casa è impossibile non riviverlo ogni volta, come l’avessimo visto, come fossimo stati lì presenti, in quel mattino del 30 gennaio 2002 quando l’Italia era più giovane di 20 anni e noi eravamo impreparati a legare alla parola madre una storia tanto orribile, impronunciabile. Inaccettabile. La mattina del 30 gennaio 2002, dopo aver accompagnato il figlio maggiore allo scuolabus – un percorso, avanti e indietro, di pochissimi minuti – mentre il minore, Samuele, 3 anni, dormiva nel letto matrimoniale, Annamaria Franzoni torna a casa e…
La versione della legge la ricordiamo benissimo: Annamaria Franzoni torna a casa e uccide suo figlio. Come e con quanti colpi non c’è bisogno di ricordarlo. E nemmeno come viene trovato il piccolo corpo di quel bambino. Ricordiamo benissimo anche la versione di Franzoni: torna a casa e quello che trova in camera da letto non c’è bisogno di scriverlo ancora. Suo figlio sta morendo. Dopo lunghissime vicissitudini processuali e mediatiche, Franzoni viene dichiarata colpevole. Condannata in via definitiva, nel 2008, a 16 anni di carcere, dal giugno 2014 usufruisce dei domiciliari. Nel 2019, in anticipo, per buona condotta, è libera. Oggi gestisce un agriturismo a Monteacuto Vallese, sull’Appennino emiliano. In tutti questi anni, la sua numerosissima famiglia d’origine non l’ha mai abbandonata. E nemmeno suo marito Stefano, con cui, un anno dopo la morte di Samuele, Franzoni ha avuto un altro figlio. Le carte processuali riferiscono di un grande attaccamento della madre ai figli, anche durante la detenzione. E di una presenza incrollabile del marito, accanto a lei, sempre. Sui giornali, in tv, è circolata la parola “clan”.
Nessuno di noi può dimenticare quanto ha visto, quanto ha sentito – i plastici, le interviste, l’annuncio della nuova gravidanza in tv, le copiose lacrime (vere, false) di Annamaria Franzoni – quanto ha visto e sentito, di continuo, nei mesi e negli anni successivi all’omicidio. Questo omicidio non finisce mai. Tanto che, a fine dicembre 2021, quando marito e moglie tornano nella villetta per il Capodanno, nessuno di noi riesce a non chiedersi: ma com’è possibile?
Al di là di ogni speculazione criminologica che non rientra nel nostro compito e che non ha più senso o non lo ha mai avuto – innocentisti, colpevolisti, ognuno (anche noi, anche io) negli anni ha detto la sua – è la memoria di questo omicidio destinato a permanere, come ripetendosi di continuo ogni giorno di questi vent’anni nella nostra memoria e nel nostro vissuto ciò che, oltre tutto l’orrore, resta.
Un omicidio che ci ha mostrato cos’è la solitudine di una madre, cosa sono i pensieri ossessivi che possono dilaniare, strappare la testa, un omicidio che ci ha costretto a conoscere termini come depressione post-partum, depressione perinatale. Un omicidio che ci ha costretto a strappare il velo di ultraterrena purezza, dolcezza, santità dalla faccia, dal corpo, dalle mani delle madri e ci ha costretto a vederle come persone.
Non è questo il luogo, ripeto, in cui discutere della colpevolezza o innocenza di Annamaria Franzoni. Atteniamoci alle sentenze, per le quali Franzoni è colpevole. Ha ucciso il suo bambino, e con una violenza tale che non può che rivoltarci lo stomaco. Solitudine, depressione, queste le cause. Un figlio piccolo non proprio facilissimo (non dormiva molto, piangeva, soffriva di intolleranze alimentari che negli ultimi tempi l’avevano fatto crescere poco). Ma quale figlio piccolo è facile? Quale donna trova facile davvero, naturale davvero, essere catapultata di colpo in un’altra realtà, completamente diversa da quella conosciuta fino a quel momento, quando diventa madre? A chi non ci è passato è forse impossibile anche solo immaginare cosa voglia dire. Quale shock sia.
Il delitto di Cogne ce l’ha fatto vedere per forza. Ci ha costretto a guardare non Annamaria Franzoni – lasciamola da parte, almeno questa volta, lasciamo in pace il piccolo Samuele – ma noi stessi. Noi stesse come madri, come future madri, come donne che non sanno se vogliono o meno essere madri, noi stesse come donne che non riescono ad avere figli, noi stesse come donne che non vogliono figli, noi stesse come donne che hanno perso dei figli. E noi stessi come uomini, come mariti, come padri, come futuri padri, come uomini che non vogliono figli. Il delitto di Cogne ci ha costretto ad ammettere che ci vuole cura. Che quasi nulla è naturale, quasi nulla è facile, e che la vita è molto più complessa di un quadretto in cui una madre tiene in braccio un bambino e lo allatta, e il padre comprende tutti e due nel suo abbraccio. Dopo il delitto di Cogne, molte madri sono ricorse agli psicologi. Alcune per testimoniare la propria depressione, o il proprio stato d’ansia, o di inadeguatezza, e per curarlo. Altre terrorizzate che i pensieri cupi della propria testa – istinti violenti nei confronti dei loro figli piccoli, relegati alla più cupa e indicibile immaginazione e fino a quel momento taciuti a tutti, come si tacciono spesso le violenze subite – diventassero realtà.
Eravamo impreparati a legare alla parola madre una storia tanto orribile, impronunciabile. INACCETTABILE. E ancora adesso una voce dentro ci sussurra: quante volte sono stato preda anch’io di una RABBIA indicibile?
Perché il delitto di Cogne, ancora adesso, 20 anni dopo, ci fa paura? Perché ogni volta che vediamo una madre in difficoltà pensiamo ad Annamaria Franzoni? Perché il suo cognome è diventato una sorta di antonomasia? Perché abbiamo letto allibiti di Stefano Lorenzi e Annamaria Franzoni che festeggiano il Capodanno nella villetta di Cogne? Perché tutto ciò ci riguarda tutti, nessuno escluso. Non è possibile accettare la morte di un bambino, così. Ed è difficile accettare che la madre che, secondo la legge, l’ha ucciso, sia libera di vivere una vita normale. E quest’ultimo punto è così difficile sia per ciò che tutti ricordiamo sia perché una voce ci sussurra: quante volte sono stato preda anch’io di una rabbia indicibile? E abbiamo paura. E allora oggi, ancora, il delitto di Cogne ci ripete di pronunciare una parola, di dirla, anche se temiamo di essere condannati o non capiti. E quella parola è: aiuto.
L’autrice di questo articolo, Antonella Lattanzi, è una scrittrice. Il suo ultimo romanzo è Questo giorno che incombe (HarperCollins)