Fino a pochi giorni fa, LinkedIn è stata l’ultima roccaforte online di una cultura orientata alla produttività, alla performatività e alla centralità della carriera. In direzione ostinata e contraria rispetto al resto del mondo (online e non), sulla piattaforma hanno continuato a circolare storie eroiche di gesta lavorative e consigli su come rendere (più o meno consapevolmente) il lavoro il centro della propria vita. A cambiare le cose è stata una designer inglese, Courtney Summer Myers, che ha deciso di ribellarsi alle regole non scritte di LinkedIn e alla narrazione scenica ha preferito la sincerità. Con l’ironia e l’estetica tipiche della GenZ, ha creato un simbolo personalizzato da aggiungere all’immagine del profilo con la scritta #Desperate (disperata) e in meno di 48 ore non solo ha raggiunto il suo obiettivo, ma ha dato inizio a un trend che è una piccola rivoluzione.
I banner di LinkedIn, tool controversi
Nel pieno della pandemia, i creatori di LinkedIn hanno introdotto lo strumento dei banner, ovvero degli hashtag che è possibile aggiungere all’immagine del profilo per comunicare il proprio stato. In pieno stile Linkedin, semplice e formale, le opzioni disponibili sono due: #Hiring (inglese per “sto assumendo”) e #OpenToWork (ovvero “sono aperto a nuove opportunità lavorative”).
Attivarli è semplicissimo e sono facilmente individuabili sia a livello grafico (aggiungono note di colore decisamente visibili alle immagini), che per l’algoritmo. La loro presenza infatti consente di dare un boost al proprio profilo, ottenere ricerche più mirate e maggiori possibilità di ottenere risposte dopo aver inviato candidature.
Il problema però è che LinkedIn oggi non è solo uno strumento che connette recruiter e lavoratori, ma un vero e proprio “social del lavoro”. Su LinkedIn si interagisce con colleghi e competitor, ci si informa sulle novità in ambito lavorativo, si condividono gli obiettivi raggiunti e – immancabilmente – ci si confronta con gli altri sul piano della carriera. Segnalando di star cercando nuove opportunità lavorative non solo ci mette nel mirino dei recruiter, ma ci espone a giudizi, critiche e imbarazzo con amici e colleghi.
Il dibattito su #OpenToWork
A dare inizio a un vero e proprio dibattito è stata la forte presa di posizione di Nolan Church, ex recruiter di Google che oggi dirige la piattaforma di ricerca talenti Continuum. Church ha esortato gli utenti a non utilizzare mai #OpenToWork perché «fa apparire disperati». Secondo il recruiter, «il mondo lavorativo è come quello delle relazioni: bisogna farsi desiderare e mostrare esclusività, solo così ci si può assicurare l’interesse delle aziende».
La sua affermazione ha dato inizio a una rivolta contro il banner. E, mentre gli utenti si rifiutavano di provare il tool per paura di risultare disperati, le ricerche ne provavano l’efficienza. Uno fra tutti l’headhunter (letteralmente “cacciatore di teste”, una sorta di recruiter professionista) Jan Bernhart che ha pubblicato proprio sulla piattaforma una ricerca empirica fatta da lui stesso, secondo cui persino l’utilizzo del banner “nascosto” (è impossibile infatti anche renderlo invisibile ai contatti) porti ad un aumento oggettivo di interazioni sulla piattaforma.
Myers e #Desperate, la rivoluzione di LinkedIn
Ma si sa: sui social non conta la verità, conta saper emozionare. È così che a dominare la discussione si è trovata una giovane designer inglese, Courtney Summer Myers. Dopo che il suo posto di lavoro non le ha rinnovato il contratto, è tornata sulla piattaforma e non ha potuto evitare di leggere le varie opinioni riguardo all’utilizzo dei famigerati banner. Invece che utilizzare il simbolo canonico, ha deciso di lanciare un messaggio: così ha usato le sue abilità di grafica per creare un nuovo – e più provocatorio – banner e sopra alla sua immagine del profilo è apparsa la scritta, in rosa, #Desperate (disperata).
Nel postare la foto, la designer ha voluto spiegare non solo la sua situazione lavorativa (appunto, disperata) ma anche il motivo per cui non intende nasconderlo. «Vi presento il #Desperate banner: c’è un grande dibattito su come #OpenToWork possa influenzare negativamente i recruiter su LinkedIn perché rischia di far apparire disperati», ha introdotto Myers. «Onestamente, nella situazione in cui mi trovo, sono davvero disperata e non credo ci sia niente di male nell’ammetterlo».
Perdere il lavoro non significa non avere abilità, talento o etica – è soltanto sfortuna. Nessuno dovrebbe vergognarsi di ammettere che ha bisogno di pagare le bollette, l’affitto, aiutare la propria famiglia o semplicemente permettersi di mangiare.
Il trend su LinkedIn a partire da #Desperate
Il post di Courtney termina con l’esortazione a utilizzare banner come #OpenToWork senza vergogna e infine con un breve riassunto delle sue abilità (perché, rivoluzione a parte, Myer ha davvero bisogno di trovare lavoro).
Le conseguenze sono state tanto immediate quanto inaspettate. In meno di 48 ore è stata tempestata da offerte di lavoro: come ha raccontato in una recente interviste, ha ricevuto in meno di una settimana oltre 10.000 richieste di connessioni e un numero incalcolabile di colloqui – tanto da rimanere sveglia fino a tarda notte per riuscire a rispondere a tutti.
Al suo appello, quasi subito, si sono uniti sempre più utenti. Non solo l’utilizzo del banner originale è aumentato di più del 10%, ma tantissimi lavoratori di tutte le età hanno adottato anche quello di Myer, unendosi alla sua battaglia e mostrando sulla piattaforma quel lato della vita lavorativa che è sempre stato nascosto per paura di apparire inferiori.
#Desperate, cosa ci insegna l’ultima invenzione della Gen Z?
L’idea di Courtney e il trend che ha generato sono una piccola rivoluzione per un social come Linkedin, dove – dal design alla struttura dei post, passando per l’algoritmo stesso e le poche interazioni concesse – la comunicazione è sempre stata molto formale.
A differenza di altre piattaforme, LinkedIn è nato con l’obiettivo di unire recruiter e lavoratori, ma nel corso degli anni è diventato sempre più uno spazio in cui parlare di lavoro a tutto tondo. Si è diffusa un’ossessione per il racconto delle normali tappe della vita lavorativa come contenuti, da rendere sempre più eroici, emozionanti e – soprattutto – gonfiati. Ottenere engagement su LinkedIn permette di posizionarsi sul mercato, certo, ma è in fin dei conti l’ennesima performance collettiva, tanto falsa quanto tossica.
Ad accorgersene per primi sono ancora una volta i nuovi protagonisti del mondo del lavoro, la Generazione Z, ma il peso di questo fenomeno ricade su chiunque si trovi a vivere un momento critico, di indecisione o di stallo. L’appello di Myer va nella direzione opposta e, contro ogni aspettativa, funziona. Perché non c’è più posto, nemmeno online, per una cultura che ha fatto il suo tempo.
Non c’è più un mondo in cui è concesso mostrarsi eroi senza macchia e senza paura, né un mercato in cui si può sperare di non avere mai un momento di caduta
Mentre su TikTok non passa mai di moda il filone del #bedrotting e su Instagram non si finisce di approfondire l’anarchica estetica #Brat, persino LinkedIn – preso d’assalto dalla nuova generazione – non può che adeguarsi. E se il mondo del lavoro è quello che spaventa di più la generazione del futuro, non è un caso che la rivoluzione sulla piattaforma sia all’insegna di una (ironica ma sincera) disperazione, in rosa pastello.