Paola non ha mai avuto una vita agiata. Ha trascorso 25 anni dietro le casse dei supermercati di Napoli, a servire clienti o riordinare scaffali, inclusi domeniche e festivi, il tempo libero diviso tra il sindacato e suo figlio. Eppure non si sarebbe mai aspettata di finire in trincea a 58 anni, a battere scontrini senza sosta in un market alla periferia della città, mentre l’Italia chiudeva a giorni alterni, contando morti e contagi da Covid. Quando racconta cosa sono stati per lei questi ultimi 14 mesi quasi non riesce a smettere di parlare. «Ci avete incontrato quasi ogni giorno quest’anno, in certi periodi di zona rossa e lockdown eravamo l’unica isola di normalità. Avete visto le file lunghissime, avete intuito la nostra fatica ma, credetemi, è solo una parte di quello che abbiamo vissuto».
È anche per questo che Paola, come tanti suoi colleghi, oggi è ancora più delusa e arrabbiata. Dopo oltre un anno passato in prima linea, gli addetti dei supermercati e del commercio sono i grandi dimenticati della campagna di vaccinazione anti Covid. Oggi i più anziani di loro hanno già avuto la prima dose, ma solo per un fatto di età. Mai sono stati inseriti nella lista delle priorità del piano vaccinale del governo cassieri, banconisti, addetti, persone che da mesi lavorano chiusi in luoghi dove entrano centinaia di persone al giorno e dove non ci sono finestre da aprire. «Gli autisti di autobus, qui in Campania, li hanno vaccinati assieme agli insegnanti. Noi no».
In Germania i cassieri dei supermercati sono state immunizzate per prime, insieme agli over 80. In Francia, anche se solo a fine aprile, è toccato agli addetti over 55 e ad altre categorie a rischio. Qui in Italia un’ipotesi simile non è mai stata presa in considerazione, se non quando è stata lanciata l’idea delle somministrazioni in azienda. L’Inail, chiamata a redigere un documento tecnico operativo, ha catalogato i lavoratori nel commercio al dettaglio tra quelli a rischio priorità uno. Nei fatti, però, le immunizzazioni in azienda partiranno solo in questi giorni e solo in alcune regioni. L’impressione è di essere fuori tempo massimo, visto che in molte zone si è arrivate a immunizzare già gli under 40.
Francesco Quattrone, direttore Lavoro e relazioni sindacali di Federdistribuzione, conferma la disponibilità delle aziende della Grande distribuzione a fare la propria parte: «Erano pronte a organizzare piani di vaccinazione in azienda, ma a questo ritmo la somministrazione nei luoghi di lavoro va semplicemente a integrare quella della sanità pubblica». A oggi, poi, l’unica grande catena pronta a partire è Coop, che ha già predisposto piano logistico e prenotazioni. Nelle insegne più piccole, come quella in cui lavora Paola, neanche se ne parla, anche perché le vaccinazioni aziendali sono volontarie, e i costi organizzativi restano a carico delle imprese, con un esborso stimato di 15-20 euro a dipendente. «Io ho ricevuto la prima dose perché ho 59 anni, ma ci sono giovani tra i 20 e i 30 anni che ancora aspettano. La verità è che ci sentiamo abbandonati» dice.
Essere messi al sicuro per primi sarebbe stata anche una forma di riconoscimento di quanto fatto finora. Oggi, anche se il peggio sembra alle spalle, Paola e quelli come lei accusano ancora tutta la stanchezza di un anno in prima linea, con i turni che non finiscono mai, gli ordini della spesa online da caricare e le frotte di gente per la spesa nei prefestivi. «L’anno scorso, era diverso: stavamo vivendo qualcosa di eccezionale, ci sentivamo investiti di una responsabilità e i rischi sono passati in secondo piano, ci facevamo forza con i clienti. Da ottobre la musica è cambiata. La gente ha iniziato a essere meno tollerante e più menefreghista, la stanchezza ha iniziato ad accumularsi e, nel frattempo, i dati dei contagi sono tornati a salire. Qui siamo stati per mesi con il cellulare nascosto sotto la cassa e non sai quante volte abbiamo chiamato la polizia perché venisse a contingentare gli ingressi. Tanti arrivano con la mascherina abbassata e tu hai paura a chiedere di alzarla. L’altro giorno un signore pretendeva di digitare i numeri del Pos dopo essersi leccato le dita per aprire la busta della spesa, gli ho detto di no. Io i guanti non posso usarli, perché altrimenti il touch della cassa non funziona».
L’emergenza Covid ha poi anche messo in luce le differenze tra lavoratori di serie A e di serie B, e Paola, che è delegata sindacale Filcam Cgil, conosce bene questa problematica. «Ci sono i protocolli di sicurezza, che prevedono mascherine in dotazione, barriere di plexiglas, ingressi controllati, ma nel negozio dove lavoro spesso si è fatto finta di nulla. In azienda non abbiamo mai fatto un tampone rapido. Le mascherine? Ci hanno dato quelle di stoffa con il logo. Le chirurgiche le compriamo noi».
Anche le tutele in caso di malattia non sono le stesse per tutti. Paola di recente ha avuto un contatto con un positivo, si è messa in quarantena e le giornate le sono state pagate al 50%. Succede perché nel commercio i contratti di lavoro non sono tutti uguali, come ci spiega Vincenzo dell’Orefice, della Fisascat Cisl nazionale: «Ci sono quelli collettivi nazionali, sottoscritti dai sindacati con le associazioni di categoria o con le singole aziende. Purtroppo, ci sono imprenditori che applicano altri contratti con sindacati minori, che non hanno rappresentanza tra i lavoratori. Così si è meno tutelati, come nel caso della malattia».
Chiedo a Paola cosa si aspetta, ora che un capitolo sta per chiudersi. «La partita dei diritti non è perduta. Voglio dimostrare che non siamo invisibili e mi batterò perché chi non ci ha protetto paghi. Farò causa alla mia azienda. Gli unici a pensare a noi, sembra una battuta, sono stati lavoratori di una catena cinese del quartiere. A inizio pandemia sono arrivati in negozio regalandoci un pacco di mascherine chirurgiche. È uno dei pochi ricordi belli di questa brutta storia».