«Crea dipendenza». Dopo i pacchetti di sigarette, questa scritta dovrebbe apparire su smartphone e consolle. Ricerche recenti, infatti, mostrano che i giovani non solo usano la Rete fin da piccoli, ma sempre più spesso ne abusano. Secondo l’Osservatorio nazionale adolescenza, 5 teenager su 10 trascorrono fino a 6 ore al giorno sul cellulare, tra chat, app e social, uno su 10 arriva a 10 ore. Il 60% sta incollato allo schermo anche di notte. «I maschi sono attratti soprattutto dai giochi, perché li fanno sentire potenti, mentre le coetanee si tuffano nei social, dove accumulano like e trovano emozioni che la vita vera non dà» spiega Maura Manca, psicologa e presidente dell’Osservatorio. «Questo atteggiamento, però, oltre ad avere pesanti ripercussioni sulle capacità di attenzione e sulla socializzazione dei ragazzi, crea in loro ansia, tensione e perfino nuove paure, come la Nomofobia (da no-mobile-phone), il terrore di ritrovarsi con il cellulare ko, che colpisce 8 adolescenti su 10».

Instaura delle regole e dai il buon esempio

Gli esperti sostengono che la prevenzione inizi con l’educazione. «Mamma e papà devono insegnare ai figli le regole per muoversi nel mondo, reale e virtuale. Dare il buon esempio: i bimbi imparano con l’imitazione, se vedono gli adulti abusare dello smartphone, crescendo li copieranno. Informarsi sempre su cosa fa il figlio, non solo a scuola, ma anche in chat. E aiutarlo a riempire le giornate in modo equilibrato, con attività concrete che possano competere con WhatsApp e Playstation». Come hanno fatto queste mamme, escogitando un “antidoto” contro la tecnodipendenza.

Ho scelto di iscriverli a un corso di coding

Veronica, 47 anni, responsabile in una multinazionale di informatica, due figli di 14 e 11 anni. «Lavoro nel mondo digitale e non posso demonizzare la tecnologia agli occhi dei miei figli. Preferisco aiutarli a conoscerla, per usarla al meglio. In casa vige una regola: smartphone e videogiochi si accendono dopo le 19, prima ci sono i compiti, il Lego, le chiacchiere. Questi paletti, però, da soli, non bastano. L’anno scorso ho sentito parlare dei corsi di coding nelle scuole che aiutano i ragazzi a familiarizzare con i linguaggi e gli schemi mentali usati per app e giochi.

L’obiettivo non è insegnare un mestiere, ma un nuovo approccio al digitale, perché possano interagirvi in modo consapevole e meno passivo. Pur avendo caratteri opposti, i miei figli ne sono stati entusiasti. Il grande ha cercato online il software per continuare a programmare da casa. E il piccolo era così orgoglioso di mostrarci il gioco che aveva creato. Visto che è appassionato di Youtube, mi ha chiesto di fare anche un corso per videomaker! Spero che questo sia il loro vaccino contro la tecnodipendenza: più conosci uno strumento e lo sai usare, meno rischi di esserne schiavo».

Ho cercato di trasmettere il piacere della lettura

Edy, 48 anni, traduttrice e blogger, due figlie di 15 e 10 anni. «Da sempre la parola è al centro della mia vita: leggo e scrivo tanto, per lavoro e per passione. Ed è l’antidoto con cui voglio vaccinare le mie figlie contro il contagio digitale. Quando ho concesso a Giulia, la più grande, lo smartphone, le ho proposto un accordo: ogni giorno prima di attaccarsi allo schermo, doveva leggere due capitoli di un libro e parlarne con me.

Subito ha protestato, poi la storia l’ha coinvolta e spesso rimaneva assorta nella lettura. Le chat le usa, ma rispettando le regole della casa. Io e mio marito consideriamo la tecnologia uno strumento e non un passatempo. A tavola, dunque, telefonini e tablet stanno fuori dalla cucina, per lasciare spazio al dialogo; alla sera, si spegne tutto, a letto si chiacchiera o si legge. L’altro pomeriggio è venuta una compagna di Giulia da noi… le sentivo silenziose, in camera, pensavo fossero online. Affacciandomi alla porta invece le ho viste tutte e tre davanti alla libreria, a sfogliare i nuovi libri. E non c’erano smartphone nei dintorni».

Ho riempito le giornate con lo sport e il gioco all’aperto

Chiara, 42 anni, assistente sociale, tre figli maschi di 16, 13 e 9 anni. «Da adolescenti ciò che è vietato attira come il miele. Ecco perché non ho voluto negare chat e videogiochi ai miei figli, li ho lasciati liberi di decidere come passare il tempo libero. Ma ho lavorato per dar loro un ventaglio di alternative tra cui scegliere. Ho iniziato quando erano piccoli: usciti dall’asilo li portavo in piazza, dove ritrovavano i compagni e i giochi iniziati in classe. Tornavano a casa stanchi, sporchi e sudati, ma felicissimi: stavano assaporando la vita reale.

Nel frattempo, li ho stimolati a provare vari sport, dal calcio al nuoto alla ginnastica, prestando attenzione alle loro reazioni. L’attività fisica costa fatica e sudore, se non regala emozioni, rischia di non competere con rivali più “facili” come la Playstation. Alla fine, il grande è approdato al basket e di colpo non era mai stanco: aveva trovato il “suo” sport. Il fratello di mezzo l’ha seguito. E io li ho aiutati a coltivare questa passione, accompagnandoli alle trasferte e seguendo le partite in tv. Anche loro usano videogiochi e chat, ma in genere tra scuola, amici e allenamenti, hanno altro da fare».