Con la pandemia è aumentato il ricorso allo smart working che se da un lato ha semplificato la vita a molti, con la riduzione dei tempi di spostamento casa-ufficio, dall’altro ha comportato un aumento del lavoro. Il lavoro agile, infatti, spesso finisce col dilatarsi nell’arco della giornata (a volte anche nel week end), cancellando di fatto le pause, come quella per il pranzo, o dilatando l’orario anche oltre quello previsto e quello al quale si era abituati in ufficio. Insomma, telefonate, email e messaggi possono arrivare pressoché a ogni ora e nella maggior parte dei casi ci si sente in dovere di rispondere.
Ma fino a che punto si è obbligati a rispondere? Quando è necessario “staccare” e come, rispettando il proprio contratto di lavoro? Si tratta di una materia delicata, ma ora un emendamento appena approvato dalle commissioni Lavoro e Affari sociali della Camera cerca di mettere ordine.
Sì al diritto alla disconnessione
Il testo appena approvato è un emendamento, a firma M5S, al decreto Covid e prevede che sia «riconosciuto alla lavoratrice o al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati». Il ricorso alla disconnessione viene definito «necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi». L’emendamento al momento riguarda il solo settore privato, mentre per i lavoratori della pubblica amministrazione resta in vigore quanto previsto dai contratti collettivi.
Un primo passo
«Quello compiuto con l’approvazione dell’emendamento è un primo passo, perché finora potevamo contare su una legge, la n.81 del 2017, che di fatto era una norma vuota, senza una connotazione pratica» commenta Antonello Orlando, esperto della Fondazione consulenti del lavoro. «Il diritto alla disconnessione era già previsto dalla legge di quattro anni fa. In particolare l’articolo 19 comma 1, chiarisce che l’accordo sul lavoro agile individua i tempi di riposo, nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione. Si tratta di una dichiarazione di intenti, alla quale non sono seguite, però, norme che indichino come attuare questo principio» continua l’esperto.
I vantaggi e i rischi
Se la direzione imboccata sembra essere quella auspicata dai lavoratori in smart working, ciò che manca sono indicazioni pratiche: «A questo punto il legislatore dovrebbe dare attuazione concreta a queste indicazioni: per esempio, chiarendo il principio di irreperibilità o gli orari al di fuori dei quali il lavoratore ha diritto alla disconnessione. Il vero problema – continua Orlando – è che molto difficile farlo in linea generale, perché esistono molte differenze tra settori. Ad esempio, un impiegato amministrativo avrà esigenze e modalità di lavoro differenti rispetto a un operatore di un call center, che inevitabilmente lavorerà al telefono e in orari diversi rispetto a quelli standard d’ufficio. La soluzione potrebbe essere l’inserimento di norme più specifiche all’interno della contrattazione collettiva nei singoli settori».
Come si organizzano le grandi aziende
I vantaggi sarebbero evidenti: indicando gli orari di lavoro e le fasce di irreperibilità, si potrebbe garantire un reale riposo per gli smart workers. Bisogna, però, che le norme siano calibrate in base agli ambiti di lavoro: «Una definizione troppo stringente a livello nazionale potrebbe limitare le possibilità di lavoro e business. Per questo finora molte grandi aziende si sono organizzate autonomamente. Per esempio, Generali ha previsto contratti di smart working per i propri assicuratori, che contemplano anche il diritto alla disconnessione. Lo stesso hanno fatto Enel e Telecom che, nell’intesa siglata con le parti sociali lo scorso agosto, è entrata molto nello specifico, ma tenendo in considerazione la tipologia di lavoro prevista» spiega Orlando.
Un altro esempio, precedente persino all’entrata in vigore della legge del 2017, arriva da Barilla che nel 2015 prevedeva che durante il lavoro agile, nell’ambito del normale orario di lavoro, il dipendente doveva rendersi disponibile e contattabile tramite gli strumenti aziendali messi a disposizione. Il che implica, però, che al di fuori degli stessi orari, la disconnessione è garantita. Insomma, niente telefonate o messaggi sul cellulare privato del lavoratore. Anche General Motor, sempre del 2015, aveva deciso che gli smart workers dovevano essere raggiungibili nelle ore centrali della giornata telefonicamente o mediante il servizio di messagistica istantanea aziendale.
Cosa manca: le sanzioni
Ciò che realmente manca nella legge attuale sono però le sanzioni in caso di inadempienza: «Quello che è scritto nella legge del 2017, ma anche nell’emendamento appena approvato, è un principio generale, ma cosa succede se non viene rispettato? Di fatto nulla, perché non sono previste sanzioni, come invece accade di solito in caso di inottemperanza di una legge. Di fatto si è in presenza di un obbligo molto generico» spiega Orlando.
Come funziona all’estero
All’estero la Francia si distingue per essere il primo Stato europeo ad aver cercato di disciplinare il diritto alla disconnessione con la cosiddetta Loi Travail o El-Khomr (n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016), che ha modificato l’art. 2242-8 del Code du Travail. Al comma 7 è stato sancito l’obbligo per le aziende con più di 50 dipendenti di prevedere il diritto alla disconnessione nel contratto collettivo aziendale o comunque in un regolamento interno approvato dai rappresentanti dei lavoratori. La stessa legge prevede che il personale addetto alla sorveglianza dei lavoratori, segua corsi di formazione e di sensibilizzazione su un uso ragionevole degli strumenti digitali per il controllo dell’attività lavorativa. Questo per evitare che il lavoratore sia controllato da remoto e dunque sia violato il diritto alla privacy. «A questa normativa francese si era ispirata anche una proposta di legge di ADAPT, l’associazione fondata da Marco Biagi, e si è ispirata la stessa legge del 2017» spiega l’esperto della Fondazione Consulenti del lavoro.