Cosa ci viene in mente quando incontriamo la parola disabilità? È una domanda che facciamo spesso alle persone che frequentano i nostri percorsi formativi dedicati al linguaggio inclusivo: 8 su 10 rispondono indicando una persona su una sedia a rotelle, o con sindrome di Down, o altre disabilità di tipo motorio o cognitivo. Tutte, per lo più, visibili. Perché è con questo tipo di rappresentazioni che ci hanno familiarizzato. È anche probabile, se non ne abbiamo esperienza diretta per motivi personali o professionali, che si consideri la disabilità come un mondo a parte, che riguarda una percentuale limitata di persone.

In realtà, le persone con disabilità in Italia sono 12,8 milioni, il 21,3% della popolazione (dati Istat 2017). E per lo più si tratta di forme non visibili di disabilità. Diabete, malformazioni cardiache congenite, bronchiti croniche, conseguenze di tumori maligni. Sono soltanto alcuni esempi di disabilità non visibili. La disabilità non è un mondo a parte, ma è parte del nostro mondo. Ed è probabile che interagiamo con essa molto più spesso di quanto immaginiamo.


La disabilità non è una malattia: è una condizione in cui chiunque di noi potrebbe trovarsi


Quanto caso facciamo ad alcune parole che utilizziamo? «Mi segui, o sei sorda?». «Dai, vuoi che non riusciamo a farlo?! Mica siamo handicappati!». «Dice sempre la stessa cosa. Sembra autistico». Espressioni che passano “inosservate”, e sono socialmente accettate, perché hanno la forma di battute, apparentemente innocue. Però dicono di chi le usa che la disabilità “non ci riguarda più di tanto”, e a chi le ascolta che la disabilità è ancora vista come una condizione di inferiorità, di cui ci si può anche prendere gioco e ridurre a macchietta. Le parole che utilizziamo sono essenziali nel cambiare questo stato di cose. Eppure, quante volte osserviamo un certo impaccio nel trovare quelle giuste. Disabile? Diversamente abile? Invalido? Handicappato? Ah no, handicappato non sta bene. Non si usa più. Tranne in alcune battute che ogni tanto ancora ci scappano.

C’è qualcosa che manca in tutte queste opzioni: la persona. Che si abbia o meno una forma di disabilità, si è soprattutto persone. Quindi la definizione che consiglio di utilizzare è “persona con disabilità”, introdotta dalla Convenzione Onu del 2006 e tuttora riconosciuta come appropriata. Perché si concentra sulla persona e non sulla disabilità, che rappresenta una dimensione della propria vita, fatta anche di tanti altri aspetti. “Normodotato” è, invece, il termine che può capitare di incontrare quando ci si riferisce a chi non ha forme di disabilità. Direi che si può fare di meglio. Perché non utilizzare “persona senza disabilità”, per continuare a mettere al centro le persone e fare della disabilità uno degli elementi che le caratterizzano? Non sarebbe un uso più paritario delle parole?

La disabilità non è una malattia, ma una condizione, anche temporanea, nella quale chiunque di noi potrebbe trovarsi. Ho scelto di dedicarmi alla creazione e diffusione di un programma formativo sul linguaggio inclusivo per aiutare a ridurre quella distanza che sembra ancora esserci nei confronti della disabilità. Perché lavorando sul linguaggio possiamo eliminare le barriere ancora esistenti nel contesto. Forse non quelle architettoniche, ma possiamo fare molto per quelle culturali.

Alexa Pantanella, autrice di questo articolo, è fondatrice di Diversity & Inclusion Speaking, start up specializzata nella ricerca e formazione in linguaggi inclusivi (www.diversityspeaking.com)