Partiamo da una considerazione. Dati ufficiali e aggiornati sui ragazzi transgender in Italia non ci sono. Uno dei pochi che riusciamo a reperire ci dice che il SAIFIP, il Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica, che si trova nell’Azienda Ospedaliera San Camillo di Roma, ha registrato dal 2018 al 2021 – non solo nel suo centro – un aumento del 315% di accessi di adolescenti in cerca di un’altra identità. Una percentuale che sembra molto alta e che per questo racconta due cose: siamo di fronte a un cambiamento culturale di cui gli adolescenti sono i coraggiosi portavoce e c’è sempre più bisogno di strutture per ascoltare e aiutare questi ragazzi.

L’ambulatorio per la disforia di genere del Gemelli di Roma

Al Policlinico Gemelli di Roma ha appena aperto un ambulatorio multidisciplinare per la disforia di genere, che al momento segue 20 giovani, la maggior parte ragazze. «Il nostro vuole essere uno spazio di ascolto» spiega Federico Tonioni, responsabile del servizio, ricercatore di Psichiatria all’Università Cattolica e dirigente medico della Uoc Psichiatria clinica e di urgenza della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs. «Un luogo protetto in cui il benessere dei ragazzi è al primo posto». Ad accoglierli c’è un’equipe multidisciplinare di cui fanno parte uno psichiatra, due psicologhe, i referenti dell’ambulatorio di endocrinologia e quelli del servizio di neuropsichiatria infantile. «Apriamo le porte ai giovani e insieme cerchiamo il percorso più adatto per la strutturazione dell’identità, nel rispetto dei loro tempi».

L’iter, coperto dal Servizio Sanitario Nazionale, a cui si accede con un’impegnativa del medico curante e un ticket di circa 20 euro, prevede 3 incontri: un colloquio conoscitivo di circa 2 ore in cui prima si ascolta il giovane da solo e poi si fanno entrare i genitori; un approfondimento diagnostico con test psicologici; un incontro finale per la diagnosi e, nel caso, la prescrizione di un percorso di accompagnamento psicologico facoltativo (info al numero 0630154122). Nell’ambulatorio del Gemelli, uno dei pochi del genere in Italia, alla base c’è il sostegno psicoterapico e psicologico e non sono previsti percorsi farmacologici, come per esempio l’uso della triptorelina, un farmaco che serve per bloccare la pubertà nei bambini. «I ragazzi che vengono da noi fanno fatica ad accettarsi, hanno una grande confusione e detestano il loro corpo. Bisogna lavorare per capire cosa ci sia alla base di questa sofferenza e per aiutarli a stare meglio, mettendo al centro la loro salute psicofisica, senza pregiudizi o stereotipi» sottolinea Tonioni.

Non si tratta di guarire, ma di capire

Che il supporto psicologico sia fondamentale trapela anche dalle parole di Mattia, 18 anni, di Torino. «La mia è stata un’infanzia felice, fin da piccolo adoravo portare i capelli corti, vestirmi di blu e giocare a calcio» racconta. I problemi sono iniziati alle medie. «Il mio corpo cresceva e io non sapevo come fermarlo. Mi guardavo allo specchio e provavo disgusto. Andavo a dormire e pensavo: “Prima o poi guarirò”». Ma non si tratta di guarire, piuttosto di capire, di prendere coscienza. Mattia inizia a farlo un giorno d’estate di 4 anni fa. «Ero in Puglia e mi sono ustionato la schiena al sole. Così per una settimana ho dovuto fare il bagno con la maglietta. E questo mi faceva stare più tranquillo, mi permetteva di nascondere le mie forme, di stare nel dubbio di essere femmina o maschio e di avere il tempo di pensare quale fosse la risposta più giusta».

Una vita a metà

Tempo è una parola che, chiacchierando con Mattia, ricorre spesso. Tempo per capire cosa gli stia succedendo, per spiegarlo prima a se stesso e poi agli altri. «Volevo dare un nome all’inferno che avevo dentro, perché se alle cose non dai un nome non esistono. Volevo essere sicuro di quello che provavo e di quello che stavo per dire ai miei amici e alla mia famiglia. Sapevo che sarebbe stata una bomba, ma è la disperazione di non voler più vivere una vita a metà che ti porta a parlare» racconta.

Proprio questo tempo di cui i ragazzi e le ragazze transgender sentono la necessità dimostra che la loro di solito è una scelta sofferta e pensata. «E che ha bisogno in primis di ascolto e di un aiuto psicologico mirato per capire se la strada che stanno intraprendendo è quella giusta» specifica Tonioni. I dati, quei pochi che ci sono, lo confermano: le ultime evidenze scientifiche ci dicono che la decisione di sottoporsi a “detransizione”, ovvero di identificarsi nuovamente con il sesso assegnato alla nascita, sembra essere molto rara, con numeri che variano da meno dell’1% al 3-4%. E che coloro che provavano rimpianto dopo gli interventi di affermazione di genere sono pochissimi. Perché, se la decisione è ponderata e condivisa, non può che essere felice, pur se faticosa.

La storia di Mattia

Ma torniamo a Mattia. Dopo quell’estate vede su YouTube un video su cosa significa essere gender fluid e per la prima volta pensa: «Non devo essere per forza femmina, se non lo voglio». Un primo, grande passo verso la consapevolezza. «A maggio 2020 ne parlo con 3 amici e inizio a farmi chiamare con un nome da maschio. Prima Andrea, poi Edoardo e, infine, Mattia. Volevo vedere che effetto mi faceva». Il risultato è positivo, ma passa ancora un anno prima che decida di parlarne a casa. «Era il 27 gennaio del 2021 e a cena, da solo con mia madre, gliel’ho detto. Non mi ricordo le parole esatte, mi ricordo solo la sua faccia a punto interrogativo e la mia agitazione. Per un mese e mezzo c’è stato uno stallo in casa, come se non avessi detto niente. Poi sono arrivati i primi aggettivi al maschile, un po’ biascicati, e dopo le “o” sono diventate chiare» racconta. Infine è arrivato anche il suo nuovo nome, da ragazzo.

Nel frattempo Mattia inizia un percorso psicologico e farmacologico, chiede il cambio di nome sui documenti e fa la ricostruzione del torace. «Adesso sono felice, non tornerei indietro perché finalmente ci sono tante cose di cui non mi devo più preoccupare. È la prima estate che vado al mare senza maglietta». E basta vedere il suo sorriso per capire che questa sarà un’estate speciale per lui.

Quando mio figlio mi ha detto: voglio cambiare genere

Come sarà speciale anche per Anna Maria Fisichella, vicepresidente di Agedo, associazione di genitori, parenti, amici e conoscenti di persone LGBT+ (agedomilano.it), e mamma di Alessandro, ragazzo transgender che dopo anni di sofferenze è tornato a vivere. Ma andiamo con ordine. Alessandro è il più piccolo di tre fratelli e fin da quando aveva 2-3 anni andava matto per i capelli corti, il karate, Spiderman e il suo camioncino giallo. «Si arrampicava sul gabinetto per fare la pipì in piedi e mi ripeteva: “Mannaggia, neanche oggi mi è spuntato il piciullo”» racconta Anna Maria. Alessandro si determinava come una “femmina sportiva”, come un maschio senza piciullo e, finché andava all’elementari, non è stato un problema. «Una femmina che si comporta da maschio socialmente non fa tanta impressione. È il contrario che fa strano. Anche se me li ricordo ancora gli sguardi delle altre mamme…» dice Anna Maria. Nonostante avesse colto questi segnali, non dava loro troppo peso. «Pensavo che Alessandro fosse lesbica o che un giorno avrebbe scoperto la sua femminilità». I problemi arrivano quando il corpo di suo figlio inizia a cambiare. «Si è chiuso, camminava curvo per non far vedere le forme, non si guardava allo specchio, non accettava quel corpo in cui non si riconosceva» spiega.

La stessa persona di prima, solo più felice

Poi, la svolta: Alessandro trova il coraggio di parlare a sua mamma. «Mi sono seduta e l’ho ascoltato. Non capivo cosa mi stesse dicendo, non avevo mai sentito parlare di maschi transgender, ma vedevo il suo sollievo, il suo sorriso che si apriva. In quel momento era come se il suo corpo prendesse consistenza». Anna Maria passa la notte sul divano a pensare cosa fare e il giorno dopo va in libreria e compra tutti i libri sull’argomento: doveva capire, sapere, conoscere. E, soprattutto, aiutare Alessandro. Cosa che riesce a fare con la dolcezza e la tenacia di noi mamme. «Sensi di colpa no, ma il lutto l’ho passato: i primi mesi ripetevo nella mia mente come un mantra il suo nome da femmina. Non ho mai pianto, mi sono però “accartocciata” dentro» ricorda. «Ma quando Alessandro mi ha detto “Non sono morto, sono la stessa persona di prima, solo più felice”, ho capito che dovevo reagire». Ed essere felice. Perché adesso Alessandro è, e non è più invisibile a se stesso.

Le parole giuste per dirlo

  • Sesso biologico: è l’appartenenza al sesso maschile o femminile, determinata dai cromosomi sessuali (XY per i maschi; XX per le femmine) e stabilita alla nascita.
  • Identità di genere: è la percezione che una persona ha di sé. Si tende erroneamente a pensare che sesso biologico e genere siano sinonimi.
  • Cisgender: è chi si percepisce a proprio agio nel proprio sesso biologico.
  • Transgender: è chi ha un’identità di genere che non coincide con il sesso biologico.
  • Non-binarismo: in questa definizione rientrano le persone che non si riconoscono – o non si riconoscono soltanto – nei due poli maschio-femmina.
  • Agender: è chi non si identifica con il concetto di uomo o di donna né in qualsiasi altro genere, e quindi non si definisce in termini di genere. A volte è chiamato anche di genere neutro (neutrois) o senza genere (genderless).
  • Demigender: è una persona che fa propria solo parzialmente e non completamente una particolare identità di genere.
  • Pangender: è una persona che sperimenta identità di genere multiple, contemporaneamente o separatamente.
  • Disforia di genere: è il malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel proprio sesso fenotipico di nascita.
  • Gender fluid: è la definizione che indica un’identità di genere che oscilla lungo lo spettro di genere variando nel tempo. Una persona gender fluid può in qualsiasi momento identificarsi come maschio, femmina, neutra o qualsiasi altra identità non binaria.