L’abbiamo tormentato per 2 anni: «Non ti impegni, sei svogliato, possibile che tu non possa fare di più?». Lasciavamo che la domanda fosse retorica, ma avremmo dovuto porla sul serio: perché dopo essere uscito dalle elementari con tutti 10, in prima media nostro figlio non aveva i risultati che ci aspettavamo? Un ragazzo curioso e amante della conoscenza. «Fatelo studiare di più» dicevano i professori. Rendimento in calo, pagella deludente. Seconda media: «Allora, quest’anno studierai?». Il nostro approccio era sempre quello. Sbagliato. La mattina non voleva alzarsi, chiamava per uscire prima. «Sarà la preadolescenza?» ci chiedevamo sgomenti. La sua inspiegabile tristezza era la nostra. Finché un giorno ci telefonano da scuola. Attacco di panico. Consultiamo una psicologa: incontra noi genitori da soli, vuole conoscere la storia di nostro figlio, che bambino è stato, cosa gli piaceva fare, che rapporti ha con gli altri e con la scuola. Alla fine azzarda un’ipotesi: «Avete mai pensato che possa essere dislessico?».

«Il dislessico è come un miope, ma ha la vita più dura».

No, non ci abbiamo pensato. La psicologa invece ha collegato gli indizi. L’odio per la scuola, che nasconde sempre qualcosa, specie in un bambino curioso. Il desiderio di fuga, l’ansia, il panico, i disturbi del linguaggio curati con la logopedia da piccolo, il fatto che sia affamato di storie ma non legga. È un’ipotesi, dice la psicologa, da verificare con i test. Lui non vuole farli, ha l’autostima sotto i piedi. «I dislessici a scuola li prendono in giro» sostiene. Oppure si sentono dire che lo era anche Albert Einstein, e la retorica del genio è ingiusta quanto il pregiudizio. Lo convinciamo a fare i test per la certificazione, un documento rilasciato dalla Asl o da enti autorizzati che spiega le specifiche difficoltà di apprendimento. Nostro figlio ha una lettura 3 volte più lenta della media e il Q.I. di Bill Gates; fatica molto con le non-parole, gli agglomerati di lettere senza senso o che non conosce, vedi il tedesco. Sì, è dislessia: una peculiarità neurobiologica che rende faticoso decodificare la parola scritta, ma non inficia la comprensione del testo. Qualcuno sarà sorpreso, ma leggere è un’attività che non coinvolge l’intelligenza (lo spiega bene Giacomo Stella in La Dislessia, Il Mulino). Il dislessico è come un miope. Ma ha vita più dura, per lui non esistono rimedi facili come un paio di occhiali.

«Ho accolto la sua diagnosi, però non l’ho accettata veramente».

Siamo sconvolti e sollevati: le sue sofferenze ora hanno un nome; lui è sotto shock ma pian piano lo accetta. «E io che credevo di essere scemo…» dice. Attorno alla dislessia ci si rivela una costellazione di caratteristiche: nostro figlio impara meglio se collega i concetti, se fa mappe; fatica a memorizzare i “nomi etichetta”, quelli per classificare le cose, i termini grammaticali e geografici. Succedeva anche allo scrittore Daniel Pennac, dislessico pure lui: lo racconta in Diario di scuola, lo leggo piangendo e ridendo insieme. In compenso nostro figlio è capace di sintesi grafiche e verbali fulminanti. Io mi lancio in suo soccorso, torno dal lavoro e leggo per lui (se ascolta, memorizza in un lampo), mi trasformo in un audiolibro vivente, e sbaglio di nuovo. «Gli impedisci di diventare autonomo» dice suo padre. Ha ragione. Ho accolto la diagnosi ma non l’ho accettata: accettarla vuol dire capire che servono interventi mirati. A 7, 8 o 9 anni, la logopedia può migliorare la velocità di lettura; a 12 anni è tardi per questo, ma non per aiutarlo ad aiutarsi. Lo mandiamo in un centro specifico, lo convincono a usare il computer, di cui aveva paura; per andarci impara a prendere la metropolitana, si sente autonomo: il rimedio più efficace.

«A scuola solo 1 prof su 9 prova a osservare il suo metodo di apprendimento».

I voti migliorano, la prof di lettere crede in lui, propone a tutta la classe le mappe concettuali, lui riesce come i compagni, anche meglio. Gocce di autostima cadono in un vaso svuotato. È 1 insegnante su 9 che prova a osservare il suo modo di apprendere, gli altri si limitano ad applicare il Pdp, il Piano didattico personalizzato. Lo prevede la legge 170 del 2010 sui DSA, i Disturbi specifici di apprendimento; si elabora con gli insegnanti partendo dalla certificazione. Indica gli strumenti compensativi e dispensativi, cose tipo software vocali per la lettura, pc e correttore automatico per disgrafia e disortografia, calcolatrice, tabelle matematiche, valutazione solo orale per le lingue, tempo in più nelle verifiche, compiti ridotti. Non si danno tutti insieme, solo gli strumenti necessari nel caso specifico. Le lenti giuste secondo il tipo di miopia.

«Dopo un bell’esame di terza media, ora va al liceo classico».

La seconda media finisce in crescendo, la terza in gloria, un bell’esame, un voto eccellente, la maggior parte dei suoi professori increduli: no, non era scemo né svogliato. E non era solo il bambino bizzarro che dicevano i maestri delle elementari. È una persona il cui ottimo cervello funziona, di fronte all’apprendimento, con modalità diverse dalla media comune: un dislessico. Una storia a lieto fine? Piuttosto una storia appena iniziata. Per lui, che si è iscritto al classico, per noi che come altri genitori combattiamo perché la scuola si attivi nel modo giusto (noi abbiamo avuto discreta fortuna, ma non è sempre così…), per sconfiggere la vergogna e prevenire sofferenze inutili. Per far capire cos’è davvero la dislessia. Una delle infinite varianti della mente umana. (Francesca Magni, autrice di questo pezzo, ha pubblicato la sua storia sul blog www.lettofranoi.it/2016/05/storia-di-una-dislessia).

COSA SIGNIFICA DSA?

DSA è l’acronimo che raggruppa i Disturbi specifici di apprendimento, che in Italia riguardano 2 milioni di persone, 350.000 nella scuola. Ecco i 4 principali:
Dislessia. È la difficoltà nel decifrare il codice scrittura, ma non nel comprendere il senso di un testo.
Disgrafia. È la dfficoltà a riprodurre i segni alfabetici e numerici.
Disortografia. È la difficoltà nel riprodurre l’esatta ortografia delle parole.
Discalculia. È la difficoltà nell’apprendere i processi di base del calcolo.