L’8 settembre è la Giornata mondiale dell’alfabetizzazione, ricorrenza voluta dall’Unesco per ribadire l’importanza dell’istruzione. Sembra un concetto scontato, ma non lo è per il 13,8% dei ragazzi italiani che abbandonano la scuola prima del diploma e vanno ad aumentare il numero dei Neet, gli oltre 2 milioni di giovani che non studiano né cercano lavoro. «I picchi si registrano intorno ai 16 anni, età limite dell’obbligo scolastico» spiega Rossana Scaricabarozzi di ActionAid, organizzazione internazionale contro povertà e ingiustizia sociale che ha attivato progetti anti-dispersione. «La conseguenza? Uno spreco di risorse ed energie che fa male non solo ai ragazzi ma a tutta la società, perché produce disoccupazione e acuisce le disuguaglianze». I dati del Miur registrano però una prima diminuzione: nel 2006 era il 20,8% a mollare gli studi. Da quando è stata istituita una cabina di regia, il fenomeno è monitorato e si conoscono le zone a rischio (periferie urbane e Sud in particolare). Stiamo invertendo rotta?
All’origine c’è spesso un contesto di povertà educativa
Alcuni istituti cominciano a elaborare piani di contrasto e prevenzione. Ogni storia di abbandono infatti si può intercettare. «Perché è preceduta da una storia di dispersione, cioè assenze ripetute, disinteresse, basso rendimento, brutti voti e bocciature» spiega Bice Cavalleri, insegnante di italiano in una scuola media della periferia est di Milano. «È il caso di Sara. Irrequieta, allergica alle regole, restia al dialogo, il suo ritornello era: “Studiare fa schifo e non serve a niente”. La famiglia, in difficoltà economiche, non collaborava, anzi, vedeva la scuola come una fonte di ulteriori problemi: con il corpo docente abbiamo insistito anche quando i genitori si rifiutavano di venire ai colloqui e di rispondere al telefono. Abbiamo spiegato che volevamo aiutare, non giudicare. Ora Sara ha deciso di continuare gli studi ed è felice». Come nel suo caso, spesso all’origine c’è un contesto di povertà formativa. «I genitori a loro volta non hanno studiato, molti dei miei studenti non sono mai neanche entrati al Duomo» continua Cavalleri.
Il metodo di insegnamento tradizionale demotiva gli alunni
Nei quartieri in cui l’insegnante è l’unica figura educativa l’abbandono aumenta. «La situazione è peggiore nei contesti svantaggiati del Sud, dove le scuole primarie non hanno il tempo pieno e i ragazzini restano in strada tutto il pomeriggio» racconta Alex Corlazzoli, insegnante e scrittore con esperienze allo Zen di Palermo. «Servono fondi, strutture, personale e volontà per tenere gli istituti aperti tutto il giorno». Il tempo pieno al Sud, che sarebbe il primo argine all’abbandono, è ancora un miraggio per 9 bambini su 10. ll ministro, Marco Bussetti ha appena proposto l’istituzione di centri, con insegnanti appositi, dove i ragazzi possano recuperare le lacune. Nel frattempo si lavora sulla didattica, per renderla meno frontale e più laboratoriale: il Miur ha destinato qualche anno fa 1 miliardo di euro al Piano nazionale scuola digitale. «L’insegnamento tradizionale non risponde alle esigenze dei ragazzi di oggi, così molti si demotivano» nota Cavalleri. Spesso il problema è aver sbagliato istituto, come è successo a Roberto, 17enne napoletano che ha lasciato la scuola professionale l’anno scorso. «Non sapevo cosa avrei voluto fare da grande, mi piaceva l’arte ma cambiare scuola non è facile come sembra e avevo anche problemi familiari». Succede al 45% degli studenti delle superiori, secondo AlmaDiploma. Su questo fronte si attendono i risultati delle Linee guida nazionali per l’orientamento emanate nel 2013 con uno stanziamento di 6,6 milioni di euro: servono, tra l’altro, a organizzare vaste attività specifiche nelle scuole medie, fino a ora demandate alle volontà di singoli istituti o insegnanti.
Le classi devono diventare un polo di attrazione
«Le strategie per contenere dispersione e abbandono hanno un unico denominatore: considerare la scuola un patrimonio e una responsabilità di tutti, non solo degli insegnanti ma della comunità circostante, fatta di genitori, associazioni, imprese ed enti» spiega Scaricabarozzi. «Bisogna fare in modo che città e quartieri entrino sempre più in relazione con le scuole perché queste diventino “poli di attrazione”: non basta che trasmettano conoscenze, devono intercettare i nuovi bisogni formativi e le inclinazioni individuali». Dove questa coscienza è già emersa le cose stanno cambiando. In parte grazie ai Pon, i fondi europei ai quali i singoli istituti possono accedere presentando dei progetti: a marzo sono stati stanziati 130 milioni di euro per attività extracurricolari antidispersione, che consentano di tenere le scuole sempre aperte con laboratori di creatività, musica, arte, scrittura, teatro, educazione alimentare.
In altri casi intervengono le associazioni come ActionAid che, per esempio, con il progetto “openSPACE”, è presente in 12 istituti di quartieri ad alto tasso di abbandono a Palermo, Reggio Calabria, Bari e Milano. «Attraverso laboratori di teatro sociale, sport, palestre dell’innovazione, coaching individuali, tirocini in aziende cerchiamo di far emergere interessi e competenze che la didattica tradizionale non riesce a sviluppare ma che sono spendibili nel mondo del lavoro» continua Scaricabarozzi. Una manna per esempio per Stefano, 18enne rumeno che vive a Reggio Calabria e ha alle spalle una lunga storia di abbandoni dovuti alla necessità di guadagnare per la famiglia. «Partecipando al progetto ho fatto nuove esperienze e incontrato persone che altrimenti non avrei mai frequentato » racconta. Negli spazi extrascolastici ha affinato le sue competenze come barbiere e fatto le giuste conoscenze per trovare, insieme a un lavoro, il suo futuro e la sua dignità.