Ci sono cascata anch’io. Quando ho letto dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro e di Maria Paola Gaglione a Caivano,
ho subito visualizzato un contesto di emarginazione sociale.
Quando ho visto i tatuaggi e i muscoli ostentati dei fratelli Bianchi,
che hanno pestato a sangue il giovane Willy, quando ho letto le parole dal carcere di Michele Gaglione, che ha provocato la morte della sorella Maria Paola speronandola in moto, ho pensato alla miseria culturale, a un mondo ristretto, in cui il nero va sopraffatto, i maschi sono maschi, le femmine femmine, e la sorella di proprietà del fratello. Una periferia culturale che mi è parsa lontana anni luce dalla quotidianità in cui sono immersa e che al massimo chiede a gran voce di essere raccontata, perché le cose cambino, con l’istruzione, con le opportunità lavorative, con una narrazione nuova, capace di allargare quegli orizzonti.
Poi però ho letto una riflessione di Manolo Farci su Doppiozero e la mia prospettiva è cambiata. Il maschio di Colleferro e di Caivano ha più a che fare con il collega elegante e incravattato che non trova pace finché non siede nel consiglio di amministrazione. Con il leader del partito politico che emerge a forza di compromessi e non molla la poltrona a nessun costo. Tutti, secondo Manolo Farci, «sono i figli degenerati di quel racconto che vede la mascolinità come un progetto virile ed eroico di affermazione nello spazio pubblico».
Un racconto di cui le donne sono state co-autrici. E mi torna in mente la regina madre della serie tv The Crown (e forse anche della realtà), che consiglia alla regina Elisabetta una “cura” per l’irrequieto Filippo che da sempre le donne hanno somministrato a mariti insoddisfatti: «Fallo brillare, lascialo emergere».
L’appartenenza a un genere, ancora oggi, si conquista. E il maschio diventa tale quando riesce a colonizzare, a occupare l’arena pubblica. Così, scrive Farci, «il progetto eroico della mascolinità è la radice che accomuna tutti noi uomini ai mostri di Colleferro (…) perché come loro viviamo in un contesto in cui si è esortati a investire su se stessi per affermarsi sugli altri, a rinforzarsi per sopravvivere entro un clima di competizione estesa, a lottare per salvaguardare i propri diritti di proprietà, la propria famiglia, il proprio spazio privato».
Forse è proprio questo il meccanismo che spiega le 432 segnalazioni di reati contro persone “diverse” per razza, orientamento sessuale, religione e abilità registrati nel 2019 (di cui parliamo con l’antropologo Marco Aime). Forse, di questo meccanismo, ciascuno di noi è complice, oltre che vittima.