Se c’è una terra senza frontiere, è quella delle separazioni tra coniugi. Nel senso che in tribunale arriva di tutto. Le ultime vittime dei divorzi sono gli animali domestici. Una categoria riconosciuta dalla Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia (legge n. 201/2010), che ne fa un elenco tassativo: cani, gatti, furetti, roditori, conigli domestici, invertebrati esclusi le api e i crostacei, pesci tropicali decorativi, anfibi, rettili e uccelli (eccezioni per certi volatili). Insomma anche i pesci nell’acquario soffrono. Il pitone pure. La medusa è in forse. Prendiamo una famiglia comune, una coppia con un bassotto. I 2 si separano e devono decidere per il cane. Cosa dicono i giudici? Se si scelgono le strade pacifiche e c’è un accordo sul mantenimento, allora il magistrato procede con l’omologa (ovvero mette una firma di convalida sulle decisioni delle parti). Se però i 2 fanno ricorso per l’affidamento – ovvero vanno a litigare in tribunale – il giudice ha il diritto (sacrosanto) di mandarli a casa. In caso di contrasto tra le parti, il giudice della separazione non è tenuto a occuparsi dell’assegnazione degli animali.
«Decidiamo 3.000 cause all’anno, non possiamo preoccuparci pure dei cani»: il principio di fondo è questo. E non fa una piega. Secondo il Tribunale di Roma, invece, “all’affidamento degli animali d’affezione è applicabile la disciplina dell’affidamento condiviso” (sentenza n. 5322/2016). Decisione singolare: cane vale quanto figlio. Il Tribunale Como rimette i puntini sulle “i” (sentenza del 3 febbraio 2016): “L’assegnazione e la frequenza con un animale domestico non possono essere assimilate all’affidamento dei figli minori”. Nella stessa occasione il magistrato ha suggerito ai coniugi, per il futuro, di evitare il tribunale. Li rimprovera perché con una “caduta di stile sul piano culturale” avevano utilizzato per il cane la stessa terminologia adottata per i minori. Una “caduta di stile sul piano culturale”. Mi piace l’eleganza inglese della legge quando ti invita a non renderti ridicolo.