Nessuno parla più delle cicliste afghane. D’altra parte, come hanno appena dichiarato i talebani, «lo sport non è necessario, quindi le donne non devono praticarlo». È necessario, invece, eccome, parlare di loro e di tutte le donne che in questo Paese da oggi non potranno andare in bici, fare arti marziali, giocare a calcio, neanche a cricket, lo sport nazionale. La motivazione? «Potrebbero dover affrontare situazioni in cui il loro viso o il loro corpo non siano coperti. L’Islam non permette che siano viste così» ha affermato il vicecapo della Commissione cultura dei talebani, Ahmadullah Wasiq.
Alcune cicliste sono riuscite a fuggire in Italia
Nel frattempo vediamo che a Kabul le donne scendono in piazza e vengono picchiate e bastonate e nelle università divise dai ragazzi tramite tende e porte chiuse a chiave, da cui si comunica con una finestrella, come in carcere. Chi è riuscita, bontà sua, è fuggita, perché inserita in qualche lista di associazioni oppure organizzazioni internazionali. Tra queste, le ragazze della squadra di ciclismo afghana, in tutto 50 ma, tra loro, quelle uscite dal Paese e arrivate in Italia sono appena sei. Si trovano in una località del Nord per adesso segreta: per le loro autorità infatti sono delle ricercate, pericolose dissidenti sulla via della parità. Già, il potere offensivo delle due ruote è dirompente.
Le cicliste a Kabul erano prese a sassate
Ci spiega tutto Alessandra Cappellotto: è lei che è riuscita a portarle in Italia. È un’ex campionessa di ciclismo e da anni si batte per la parità in questo sport ma soprattutto perché attraverso il ciclismo le donne possano migliorare la propria condizione. Infatti ha fondato il Cpa Women, il sindacato internazionale delle cicliste (movimento storico mondiale ma che non esisteva al femminile fino a sei anni fa) e ora è presidentessa dell’Associazione Road To Equality, che ha come obiettivo sviluppare il movimento del ciclismo femminile in Paesi dove non esiste, dall’Africa all’Asia. «Andare in bici in Afghanistan è davvero un gesto rivoluzionario. Per una donna fino a 20 anni fa era impensabile pedalare in libertà. Quando il movimento ha iniziato a fare i primi passi – cioè con la caduta dei Talebani – le ragazze venivano prese a sassate per la strada, bersagliate con frutta e ortaggi, insultate in ogni modo». Una di loro, Masomah Ali Zada, è stata perfino investita insieme al suo allenatore. È scappata da Kabul due volte, poi non ci è più tornata e l’abbiamo vista a Tokyo, nella squadra dei rifugiati. È arrivata ultima nella cronometro ma, come ha detto lei, intervistata da Europort: «Poco importa: sono già una vincente contro le persone che pensano che le donne non abbiano il diritto di andare in bicicletta. Ho partecipato ai Giochi Olimpici, quindi ho vinto».
Caduti i Talebani, le donne avevano iniziato a fare sport
La bici, però, negli anni ha macinato chilometri e consensi, imperterrita. Come gli altri sport, in cui le ragazze hanno cominciato ad affacciarsi: calcio, pugilato, taekwondo, cricket. Lo sport al femminile insomma in questi 20 anni si è radicato e strutturato e sono nate le federazioni. «È stato il presidente della federazione bici a spingere con forza le donne verso questo sport che vuol dire libertà, indipendenza, autodeterminazione. La squadra così è cresciuta e il 9 marzo di quest’anno le ho aiutate a organizzare una gara a Kabul. Un piccolo traguardo, loro tutte coperte, alcune con il velo sotto il caschetto, altre con i capelli sciolti ma con abbigliamento tecnico: una data storica. Nel frattempo fiorivano altre manifestazioni e anche un turismo in mountain bike a Kabul e nella regione vicina del Damyan. Insomma, c’erano tutti i segni di un punto di partenza per un futuro diverso al femminile».
Tutte le atlete sono in pericolo di vita
Invece, dopo poco tutto precipita. Diventa sempre più chiaro che le ragazze sono in pericolo di vita, non solo le cicliste ma tutte le sportive: di fatto anche i vicini di casa diventano pericolosi perché possono denunciarle. E così, chi riesce, si avvicina a Kabul nascondendosi come può, finché un gruppetto raggiunge nella calca l’aeroporto e solo sei riescono ad arrivare all’Abbey Gate, il punto di ritrovo. Altre devono tornare indietro, a una viene ucciso il fidanzato perché si è scoperto che lei è un’atleta. Le bici vengono distrutte. Tutte cancellano profili social e foto dal web. E tutte sono in pericolo perché quelle foto sono circolate».
Chi sono le ragazze arrivate in Italia
Le sei arrivate in Italia sono le più giovani, le più forti, le più resistenti: «Sono state tre giorni ferme, schiacciate nella calca, senza mangiare e senza bere, facendosi i bisogni addosso, immerse con i piedi nel dirty river, il canale immondo fuori dall’aeroporto. Hanno 17 – 19 – 20 – 21 e 25 anni. Sono ancora tutte figlie di mamme rimaste là, e che loro tutti i giorni mi chiedono di far uscire dal Paese nella loro lingua, il Pashtun, con cui comunichiamo grazie a Google traduttore. Con loro c’è anche un papà, che ha due ragazze cicliste e due maschi di 13 e 17 anni. Gli altri figli di 3 e 5 anni si sono persi con la mamma nella calca delll’aeroporto e di loro non si sa più nulla. E poi c’è l’allenatore, con la giovane moglie e una bimba di 10 mesi, che non sapevamo fosse con loro». Una sorpresa dolcissima al momento di incontrarli, avvenuto nel campo di Avezzano, vicino a L’Aquila, dove Alessandra è andata a conoscere il gruppo.
Dove sono ora le cicliste?
Tutti adesso sono in un hotel e trascorrono le loro giornate a tentare di ambientarsi, mentre cercano di mettersi in contatto con le famiglie a Kabul, per provare a farle uscire dal territorio. Da lì infatti le notizie arrivano frammentarie, e comunicare con chi deve restare nascosto risulta difficile. Man mano che giorni passano, hanno azzardato qualche uscita nei paraggi dell’hotel, con prudenza e il velo sulla testa, e tanto stupore e gioia nel vedere le bici passare per strada: «È difficile far capire loro che per noi è un mezzo come un altro, diffuso e democratico» dice Alessandra.
Sono stati tutti inseriti in un programma statale: andranno a scuola di italiano per i primi mesi e poi dovranno dimostrare di aver diritto alla status di rifugiato, che per ora permette loro di restare. Qualcuno quindi potrebbe dover andare via. Intanto Alessandra Cappellotto con la sua associazione e l’aiuto di tante persone ha procurato abiti, prodotti per l’igiene, trousse per il make up. L’articolo più richiesto è stata la lima per le unghie, il più osannato il profumo. Anche questi, in fondo, “non necessari”, come lo sport. Eppure, boccate di bellezza e leggerezza che ti fanno sentire viva e forte, come quando sei in bici.