È molto difficile uscire dall’Afghanistan, anche per le donne e i bambini. «I Talebani lo impediscono – e lo dichiarano ufficialmente. L’aeroporto è circondato dai militari americani ma prima c’è un cordone di Talebani che per disperdere la folla frusta e picchia la gente: sono 20mila le persone accalcate nella zona dell’aeroporto. Alcuni bambini delle famiglie che siamo riusciti ad aiutare sono finiti in ospedale». Raggiungiamo con fatica al telefono Simona Lanzoni, vicepresidente dell’associazione Pangea, onlus che da 20anni opera in Afghanistan a sostegno delle donne. In questi giorni drammatici è direttamente coinvolta nel tentare di mettere in salvo almeno le persone – soprattutto donne – che hanno lavorato nei progetti di alfabetizzazione, igiene, educazione procreativa ed economica, piccoli semi di un cambiamento che ora rischia di arenarsi. «Abbiamo molta paura per le nostre collaboratrici e stiamo cercando di salvare almeno loro. Proprio in queste ore stiamo riuscendo a evacuarne alcune, grazie ai nostri militari ancora lì e al console Tommaso Claudi, attivissimo, rimasto a Kabul per coordinare le operazioni». Intanto ci raggiungono le notizie di spari e morti nella zona dell’aeroporto: fino ad adesso, almeno 20 sono le persone rimaste uccise di cui abbiamo notizia e molti i bambini che hanno smarrito i genitori nella confusione di quello che il presidente Biden ha già definito «il salvataggio più grande della storia».

I Talebani rastrellano e uccidono

Aver lavorato per i diritti delle donne diventa una macchia: «Una colpa che può portare a essere violentate, frustate pubblicamente, torturate, fino a essere uccise. E a punire anche i familiari» ci racconta Simona Lanzoni. «Le notizie che ci arrivano sono drammatiche. I Talebani stanno entrando nelle case per capire chi lavora con gli occidentali e le organizzazione governative e punirli. Noi stessi abbiamo bruciato tutti i documenti dell’archivio di Kabul, per non lasciare traccia delle persone che aiutano le donne e delle donne stesse che si sono emancipate. A livello internazionale garantiscono che i diritti acquisiti non saranno intaccati, ma in realtà stanno facendo veri e propri rastrellamenti. Ci hanno appena raccontato di una ragazza di una Ong, unica sopravvissuta a un rastrellamento perché si è nascosta in una cantina: le altre persone – 16 – sono state uccise». Un messaggio per tutti, datato 17 agosto, che troviamo sulla bacheca Facebook di Pangea: «Sto aspettando che i Talebani bussino alla mia porta. Mia mamma dice che se dovessero venire devo scappare sul tetto. Questa notte piango molto per la mia gente. Il mio cuore piange. Sono tre notti che non posso dormire, vado a letto ma non riesco a dormire». Purtroppo tante notizie non arrivano perché tutti hanno paura di parlare. Perfino il vicino di casa è già diventato un nemico, che denuncia gli altri per salvarsi.

Le ragazze bruciano i vestiti e svuotano le trousse

Intanto a Kabul le studentesse nascondono i documenti che provano la loro iscrizione in università. Bruciano i vestiti e svuotano le trousse con i loro trucchi. Chiudono i profili Instagram, si procurano dei chadari, i burqa afgani. «La mia vita» ha raccontato al Guardian una giornalista ventiduenne rimasta anonima per ovvie ragioni di sicurezza, «è stata cancellata in pochi giorni». Tutti in Afghanistan stanno distruggendo ciò che può compromettere la sicurezza personale: libri, vestiti, carte e fogli che provino un rapporto di qualsiasi tipo con gli Occidentali. «Le donne non erano rispettate prima, difficile pensare che lo saranno adesso» prosegue Simona Lanzoni. «Quando nel 2002 siamo arrivati in Afghanistan, c’erano donne che non uscivano di casa da quattro anni». Quelle che infrangevano le regole dei Talebani venivano regolarmente fustigate o giustiziate. Costrette a indossare il burqa dall’età di otto anni, non potevano lavorare, andare a scuola o uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia. A Kandahar le donne che si dipingevano le unghie erano passabili del taglio delle dita e vigeva il divieto di indossare scarpe con il tacco in quanto “nessun estraneo dovrebbe sentire i passi di una donna”.

I piccoli progressi per le donne negli ultimi 20 anni

In questi 20 anni dei cambiamenti ci sono comunque stati anche se il Paese è ancora considerato il peggior posto in cui nascere per una donna. Secondo Human Rights Watch, l’87 per cento delle donne afghane ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. La legge sull’eliminazione della violenza contro le donne approvata nel 2009 non è mai stata davvero implementata: una donna che subisce una violenza sessuale in Afghanistan ha più probabilità di essere incriminata per aver fatto sesso fuori dal matrimonio che di vedere in carcere il suo stupratore. Cisda, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane onlus, tramite una mediatrice italiana è riuscito a contattare una portavoce di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, che dal 1977 gestisce progetti di alfabetizzazione femminile, orfanotrofi, assistenza sanitaria. Si chiama Maryam e racconta a Osservatorio Afghanistan che sì, alcuni progressi dal 2001 ci sono stati: «Le ragazze non sono più state bandite dalla scuole e le donne hanno potuto svolgere alcuni lavori. I media sono riusciti ad arrivare anche in villaggi molto remoti e la gente ha avuto accesso alle trasmissioni radio e TV. Sono stati introdotti sistemi di comunicazione come cellulari e internet. Sembrano cose scontate, ma per un Paese molto povero e arretrato sono vere e proprie conquiste. Nello stesso tempo però sono aumentati la corruzione e il divario tra ricchi e poveri».

L’analfabetismo femminile nelle campagne è al 100%

Nelle zone rurali, comunque l’analfabetismo delle donne ancora oggi raggiunge il 100 per 100, nei centri più importanti l’80-90. «È su quel 20 per cento di ragazze istruite che possiamo puntare, ma occorre vedere come si strutturerà il cosiddetto “emirato afghano”» prosegue Simona Lanzoni. «Di sicuro progetti di empowerment femminile come il nostro danno fastidio perché non sono progetti sanitari, quindi non sono utili ai Talebani. Li infastidiscono perché per esempio il nostro progetto ha permesso ad oltre 5mila donne di seguire corsi di alfabetizzazione, aritmetica, igiene, salute riproduttiva, formazione professionale. In questi anni abbiamo distribuito più di 5000 microcrediti, che le donne hanno sempre restituito. Le donne sono diventate imprenditrici e hanno potuto da sole mandare i bambini e le bambine a scuola. Hanno comprato per loro cibo, medicine, quaderni, libri. Proprio come delle mamme qualsiasi. Hanno potuto mandare i figli e le figlie all’Università. Hanno mantenuto da sole la loro famiglia».

Servono subito corridoi umanitari per le donne

Adesso vanno aiutate. «Stiamo raccogliendo fondi destinati a questa emergenza e penso che vadano garantiti corridoi umanitari laici per le giovani donne che vogliono istruirsi, per le donne vittime e a rischio violenza, per le attiviste dei diritti umani e le giornaliste» conclude la vicepresidente di Pangea. «Va messa in atto la Risoluzione UNSCR 1325 su donne, pace e sicurezza. E credo fermamente che non vada riconosciuto il governo talebano. E questo che chiediamo, è questo di cui c’è immediato e urgente bisogno».