Il lavoro è un diritto, ma non per tutti. O non per tutte. A lasciarlo intendere sono i dati di un recente rapporto realizzato da Randstad, dal quale emerge che troppe donne in Italia sono casalinghe “per forza”. Se alcune scelgono volontariamente di dedicarsi alla famiglia e alla casa, per molte si tratta semplicemente di un “piano B”, legato nella maggior parte dei casi all’impossibilità di coniugare i tempi e gli impegni di lavoro con quelli familiari.
Le “forzate della casa” hanno tra i 30 e i 69 anni e rappresentano il 43% del totale della popolazione femminile, ossia ben 7 milioni. Di queste le casalinghe sono 4,5 milioni, le pensionate 2,5 milioni, le studentesse 75mila. In Europa, però, le cose vanno diversamente: la media delle inattive si ferma al 32%, con punte molto più basse in Germania (24%) o in Svezia (19%). Se si prendono in considerazione anche i pensionati, dunque, l’Italia spicca per la sua anomalia rispetto agli altri paesi europei e il problema è che nel 2020, complice la pandemia, l’inattività nella fascia 15-64 anni è cresciuta del 3%.
Troppe donne che non lavorano
A incrociare i dati degli “inattivi” in Italia con l’età e il genere si scopre che si tratta soprattutto di donne (60%), e soprattutto di donne scoraggiate, nonostante abbiano ancora la possibilità anagrafica di trovare un impiego. Il fenomeno riguarda un po’ tutta l’Italia, senza enormi distinzioni regionali, anche se una percentuale maggiore si trova al centro e al sud.
«C’è indubbiamente un problema di scoraggiamento, che è dato da un contesto generale. Dobbiamo tenere presente, infatti, anche i tassi di disoccupazione. Nei periodi di crisi, come quello conseguente al lockdown per la pandemia, è diminuita la disoccupazione, ma per il semplice motivo che è aumentato il numero di persone che ha rinunciato a cercare un lavoro, diventando quindi inattivo. Questo fenomeno è particolarmente rilevante in Italia, perché da noi ci sono più difficoltà a trovare un impiego, per esempio rispetto a un paese come la Germania. Le donne nutrono ancora più sfiducia, perché vedono che faticano a trovare lavoro anche molti uomini. Quello che ci auguriamo è che adesso, con il Pnrr, possano esserci maggiori opportunità, anche per le donne» spiega Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat ed esperta di statistica di genere.
Un problema anche culturale?
Confrontando la situazione italiana con quella internazionale, emerge un divario notevole: nell’Europa a 28 siamo al terzo posto per inattivi nella popolazione tra i 15 e i 64 anni, alle spalle solo di Turchia e Montenegro. Se consideriamo soltanto la popolazione femminile, le donne che non lavorano e non cercano occupazione tra i 15 e i 64 anni sono il 43,2%, ossia 12 punti in più rispetto alla media Eurostat. Peggio di noi solo Turchia e Macedonia. C’è chi si chiede se sia un problema anche “culturale”: forse pesa ancora l’idea che la donna dovrebbe occuparsi più della famiglia, dei figli e della casa, mentre è l’uomo che che si dedica al lavoro (e alla carriera). Si tratta di un “retaggio” che ancora oggi resiste, specie in alcune aree del paese, anche se a pesare è anche la crisi occupazionale «Il problema è che noi siamo su tutto il fronte dell’occupazione: tra le donne il fenomeno è più accentuato perché abbiamo sì molte inattive, ma soprattutto tante disoccupate. Siamo persino ultimi, quanto a occupazione femminile, dopo la Grecia. Quello che preoccupa è che il dato si riferisce alla fascia tra i 25 e i 34 anni, cioè quella che dovrebbe anche avere un livello di istruzione più alto, e anche nel nord Italia» spiega Sabbadini.
Il lavoro “in casa” e “da casa”
Anche tra le donne che lavorano come dipendenti, però, molte lo fanno da casa. Il fenomeno del lavoro a domicilio è sicuramente esploso con la pandemia che ha visto aumentare in modo consistente il ricorso allo smart working, modalità che oggi rimane in essere per moltissime lavoratrici. È un bene o un male? «Prima del 2020 la percentuale di lavoro da remoto era molto bassa, intorno al 4%, e comunque riguardava soprattutto le donne. Il boom c’è stato con la pandemia e ora in parte rimane. Per le donne può essere un’opportunità, ma solo se è davvero flessibile: se permette, per esempio, l’alternanza di alcuni giorni di lavoro in presenza e altri da remoto, perché può facilitare la conciliazione dei tempi di vita. Ma il sempice lavoro da casa, può essere rischioso perché può limitare le possibilità di carriera femminile» commenta Sabbadini.
Pagate meno: meglio stare a casa?
A spingere a rinunciare alle possibilità di crescita professionale o persino al lavoro può contribuire anche il gender gap, cioè la differenza retributiva tra uomini e donne a parità di mansioni e anzianità. La cosiddetta “segregazione settoriale”, stimata con un divario di stipendio intorno al 30%, si somma poi al fatto che le donne spesso sono impiegate in settori a retribuzione inferiore, come l’istruzione e la cura alla persona (la maggior parte dei caregivers è donna). La percentuale di dipendenti maschi è decisamente maggiore (oltre l’80%) nei settori con retribuzioni migliori, in particolare nell’ambito STEM. Da qui la tentazione di rinunciare in toto al lavoro, specie di fronte alla mancanza di servizi che supportino le famiglie.
Il lavoro non retribuito
Eppure le donne non sono realmente “inattive”, perché anche chi sta a casa svolge un lavoro, che semplicemente non è retribuito. Non è un caso che si parli sempre più spesso di Work life balance, cioè di equilibrio tra vita e lavoro, e di conseguenza anche di redistribuzione dei compiti: il tempo dedicato dalle donne al lavoro retribuito è in media inferiore a quello degli uomini, ma sono più occupate in compiti non remunerati, quindi nel complesso lavorano di più nell’arco della giornata, ma la maggior parte del tempo è dedicata alla famiglia invece che alla carriera. «La vera questione è mettere le donne in condizione di essere alleviate da alcuni carichi di lavoro, a livello sociale. Il problema è che manca una rete di infrastrutture potente: il nostro Paese non ce l’ha e non l’ha mai avuta, ma soprattutto sembra che non sia tra le priorità del prossimo futuro» osserva l’esperta.
Quando i padri staranno di più a casa?
In questo quadro ci si chiede che fine abbia fatto la legge per estendere il congedo di paternità a tre mesi, come ipotizzato dal Family Act. In sede di legge di Bilancio non sono stati trovati i fondi necessari, come denuncia la deputata del Pd Giuditta Pini, che ricorda come anche il ministro per le Pari opportunità, Elena Bonetti, aveva indicato questa priorità in occasione del G20. «L’Italia fa parte del G7, ma da questo punto di vista – dell’occupazione e dei servizi sociali a sostegno delle donne lavoratrici – è indietro. Questo tema, purtroppo, non è nella testa di nessuno» conclude Sabbadini.