Quante volte ci siamo sentite dire che le donne sono sempre in competizione tra loro? «Basta con gli stereotipi» ci vien voglia di rispondere, opponendo tanti e solidi esempi di solidarietà femminile. Eppure c’è, in quella affermazione, qualcosa di urticante che va a toccare un punto sensibile da cui preferiamo ritrarci. Ne parliamo con Elena Pulcini, docente di Filosofia sociale all’università di Firenze e autrice di Invidia. La passione triste (Il Mulino) e Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale (Bollati Boringhieri).

Tra loro le donne sono amiche o nemiche?
«In noi possono coesistere entrambe le dimensioni, tutti abbiamo delle ambivalenze e non dobbiamo averne paura. In realtà, la competizione appartiene al maschile: si tratta di una passione estroversa, manifesta. Tra donne entra più in gioco l’invidia, passione silenziosa, non dichiarata, sottile e insidiosa. Ma diciamolo subito e in modo chiaro: non è nella natura delle donne, siamo state costrette all’invidia».

Chi ci ha costrette?
«L’immaginario culturale. Che è stato costruito prevalentemente al maschile. Secondo il mito, la guerra di Troia da cui nasce il destino dell’Occidente è scatenata da Eris, dea della discordia, che mette l’una contro l’altra altre dee per stabilire chi sia la più bella. Le donne, per secoli relegate in una posizione sociale subalterna, si sono trovate a rivaleggiare per la conquista del maschio. Ancora oggi solo a una donna si dice: “Non essere aggressiva!”. Si dà per scontato che l’uomo possa esserlo. Alle donne è stata concessa soltanto l’invidia, e la bellezza, unico bene lasciato loro in dotazione, è stato il terreno di scontro con le altre. Troviamo questa dinamica in tante fiabe, da Biancaneve e Grimilde a Cenerentola e le sorellastre».

Oggi, però, le donne sono più emancipate di Cenerentola e ci sono tante manifestazioni di sorellanza.
«Vero. Però da un lato la conquista dell’autonomia è un passaggio recente e non ancora così generalizzato; dall’altro, l’invidia che era tra le mura domestiche per la conquista del maschio si è estesa in ambito pubblico, per l’affermazione professionale, la carriera e il prestigio sociale. Io stessa l’ho sperimentato tante volte nel mio ambiente di lavoro. Certo, ci sono anche tante situazioni in cui le donne si aiutano l’una con l’altra, ma non mi piace molto il termine sorellanza».

Perché?
«Riprendendo il pensiero della filosofa Hannah Arendt, sorellanza, così come fratellanza, è un termine “fusionale” per cui si sta uniti tutti insieme per una causa comune. Il che va bene, ma ha sotteso un doppio pericolo: non solo di perdere l’identità del singolo, ma anche di tracciare un confine netto tra chi è dentro al gruppo e chi è fuori perché magari esprime un pensiero in parte diverso. Per questo, a sorellanza io preferisco amicizia».


«L’invidia non si elimina, ma si può domare. Il primo passo è riconoscere che ognuna di noi può provarla. Il secondo è opporre alla passione negativa una positiva. Così possiamo invidiare una persona, ma anche provare simpatia per lei»


 

Se il terreno di contesa si è trasferito sul mondo del lavoro, almeno nel privato siamo più amiche e meno gelose delle altre?
«Non è scomparsa la rivalità per l’uomo, ma oggi le relazioni tra i sessi sono variegate, la coppia eterosessuale è solo una delle tante variabili. Distinguerei, poi, tra gelosia e invidia. Sono gelosa di qualcosa che ho, e temo che altri me lo prendano. Invidio qualcuno per quello che ha. Con l’invidia scatta un processo mimetico: voglio avere ciò che ha un’altra persona e così lei diventa, allo stesso tempo, il mio modello e la mia rivale».

Un processo che ci porta via tanta energia.
«L’invidia è una passione triste, che ci depotenzia. San Tommaso d’Aquino diceva che nasce da un sentimento di diminuzione del proprio essere. Non la si confessa perché farlo significa ammettere la propria sconfitta, il che è più grave nella società di oggi che ci vorrebbe tutti vincenti».

Per fare guerra non tra noi ma all’invidia tra noi, quali armi abbiamo? «L’invidia non si elimina, però si può domare. Il primo passo è riconoscere che ognuna di noi può essere morsa da questo tarlo. Faccio un esempio personale: mi è capitato di provare invidia per chi ha vinto un premio che avrei voluto fosse riconosciuto a me. Il secondo passo è capire che si può combattere questo sentimento opponendo alla passione negativa una positiva: così possiamo invidiare una persona, ma anche provare simpatia per lei. Va anche disinnescato il meccanismo mimetico, accettando i nostri limiti e puntando sulla nostra unicità. Noi donne dobbiamo poi valorizzare un dono ancestrale preziosissimo».

Quale?
«Una sorta di empatia immediata. Quando raccontiamo la nostra vita privata a una sconosciuta incontrata in treno, o incrociamo lo sguardo complice di una collega durante una riunione noiosa, oppure soffriamo con l’amica abbandonata dal marito e ne stimoliamo l’autoironia, allora ci riconosciamo e ci apparteniamo. Non è detto che succeda con ogni donna, ce ne sono molte con cui sentiamo di avere ben poco da spartire, ma quell’empatia è un nostro privilegio. Certo, c’è complicità tra gli uomini, però loro hanno sempre bisogno di fare qualcosa insieme, come lo sport. A noi basta il piacere della relazione, del dialogo».

Siamo però attive anche a livello collettivo promuovendo associazioni e iniziative.
«La solidarietà femminile in ambito sociale mostra vitalità, penso all’impegno contro i femminicidi o per le pari opportunità. Ma è più “facile” farlo sul piano collettivo: in quesi casi mi batto per le donne in generale e a unirci è spesso un nemico comune, come la violenza di genere. Più complesso a livello individuale, perché l’invidia è in agguato, anche se per una vera amica siamo in grado di fare cose straordinarie».

Cosa può rendere più difficile la solidarietà femminile sul lavoro?
«La gestione del potere: poche e da poco tempo ne hanno familiarità. Spesso invidiamo le donne di potere, ma allo stesso tempo diffidiamo di loro. Per placare il tumulto dei nostri sentimenti finiamo in molti casi a svalutarle e detronizzarle. Il potere è ancora il nostro spettro da esorcizzare. Tuttavia sono convinta che esista – e che, se si diffonderà, potrà essere rivoluzionario – un modo davvero femminile, empatico ed efficace di gestire il potere. Lì si gioca una delle nostre sfide più grandi».