Ho trascorso gli ultimi 20 anni raccontando l’Afghanistan. In particolare le donne che lentamente, dopo il tramonto del regime dei talebani, erano uscite dall’ombra, strappandosi i burqa per arrivare due decenni dopo a mostrare la forza dei loro sguardi incorniciati da veli colorati. Ho ascoltato le parole di ragazze che con lo studio, la volontà, a volte con il sangue, hanno lottato per ritagliarsi uno spazio nel loro mondo, a discapito di una tradizione spesso troppo conservatrice per permettere alle donne di essere persone. I talebani si erano dati alla macchia, ma erano sempre quelli che piazzavano gli ordigni sotto le auto dei giornalisti e dei politici, erano quelli che combattevano il nuovo esercito, che mandavano kamikaze nei mercati o nelle scuole. Erano una minaccia che nessuno vedeva: ma tutti sapevano che esisteva, fino a quando il 15 agosto si è disvelata riprendendo il controllo del Paese.
Nelle vite delle donne in Afghanistan si è aperta una voragine
Oggi è difficile per me vedere di nuovo per le strade i talebani, dai quali mi sono sempre dovuta guardare le spalle come donna, giornalista e straniera, ma non immagino neppure la voragine che si è aperta nelle vite delle donne afghane. Donne avvolte da veli sempre più stretti e coprenti. Donne che, fino a qualche settimana fa, avevano una vita, anche se quella vita non è mai stata facile in un Paese ultraconservatore che guardava al genere più come a un problema che a una risorsa. Eppure, nonostante guerra, povertà, corruzione, tradizioni stringenti, passi avanti erano stati fatti. La società civile afghana non era perfetta, ma lottava. Creava, pensava, stupiva a volte. Le ragazze facevano sport, dipingevano, cantavano, guidavano, andavano ai caffè con le amiche, facevano selfie ritoccati su Instagram, vincevano premi scientifici, facevano politica, insegnavano e indossavano la divisa. Hanno pensato, non senza difficoltà, di poter fare tutto.
Molte donne in Afghanistan sono costrette a cambiare casa di continuo
«Ma ora è come se all’improvviso il mondo si fosse appiattito, come se un muro fosse caduto su di noi e ci avesse annientate nel corpo e nell’anima» racconta un’avvocatessa che si nasconde da quando riceve minacce di morte. Come molte è costretta a cambiare casa di continuo, non parla più con gli amici per non metterli in pericolo, ma soprattutto ha perso ogni cosa: il lavoro, la famiglia dalla quale ha dovuto staccarsi per cercare di stare al sicuro, in attesa di riuscire a fuggire.
«Io invece non me ne vado. Ho un passaporto americano, potrei partire, ma ho deciso che il mio posto è qui più che mai accanto alle ultime» tuona Mahbouba Seraj, 73 anni, definita dal Time una delle 100 persone più influenti del 2021 nel mondo. Seraj dirige un rifugio per donne vittime di violenza domestica, l’unico ancora aperto. «I talebani sono venuti qua 4 volte» ricorda. «Mi hanno preso la macchina, volevano prendersi la mia casa, sono entrati nel rifugio, e per quanto dicessi che irrompere in un luogo dove ci sono solo donne fosse contrario anche alla loro legge, lo hanno fatto lo stesso. Dentro, le ragazze erano pietrificate dalla paura».
La paura è il filo conduttore che unisce il nuovo Afghanistan
La paura, forse, è l’unico filo conduttore che unisce il nuovo Afghanistan, da Kabul alle province più lontane, anche se spesso viaggia sottotraccia: l’atmosfera tranquilla che si respira per le strade, e che i talebani esibiscono come un successo politico, è conseguenza diretta dello sgomento di chi osserva un nemico feroce prendersi i posti di comando. «Mi sento tradita e abbandonata dall’Occidente» continua Mahbouba Serraj. «Ora a chi pensate si rivolgerà una donna che subisce violenza? A un poliziotto talebano? L’amministrazione precedente era corrotta e piena di difetti ma esistevano delle leggi, delle procedure: adesso invece la prima cosa che hanno fatto è stata abolire il ministero per gli affari femminili».
A essere in pericolo non sono solo le donne attiviste in Afghanistan
Zarohidi ha 21 anni e fa la giornalista: nell’ultimo mese e mezzo è uscita dalla sua abitazione 2 volte, la prima per accompagnare la madre a fare la spesa e la seconda per incontrare noi, avvolta in un’abaya nera e un velo che le copre il resto della testa. Quando siamo rimaste in casa da sole, dopo pochi minuti è riapparsa indossando jeans, maglietta e un leggero velo colorato che le incorniciava il sorriso.
Ci sentiamo tradite. A chi dovrebbe chiedere aiuto oggi una donna che subisce violenza? A un poliziotto talebano?
«Da quando le donne non possono più lavorare, lo faccio da casa, sotto falso nome» spiega mostrando l’angolo della sala dove smanetta col computer quando ha a disposizione elettricità e connessione Internet: un fatto non scontato visto che dopo il traumatico passaggio di consegne l’Afghanistan è anche ostaggio di una grave crisi economica, con le banche chiuse, la macchina statale ancora al palo e una costante carenza di materie prime. Zarohidi collabora con la più grande agenzia stampa afghana che però secondo i suoi capi ha ancora un paio di mesi di vita al massimo prima di esaurire i fondi: il direttore ha già venduto la sua macchina per mettere insieme il pranzo con la cena. «Ho smesso anche di andare all’università» conclude. «Non solo perché le studentesse rischiano la vita anche lì, ma perché inizio a pensare che non abbia più senso se siamo condannate a restare in casa. Ormai per noi giovani l’unica finestra rimasta sul mondo sono i social, ma quanto ci metteranno i talebani a toglierci anche questo?».
Donne costrette a nascondersi
Dopo che per molto tempo è stata lei a dare la caccia ai criminali, anche Khadija è costretta a nascondersi. Lo fa da quando, verso la fine di agosto, ha sentito di una poliziotta uccisa. Una poliziotta, proprio come lei. Khadija è stata addestrata dai militari italiani e ha paura che prima o poi qualcuno venga a saperlo. Si è spostata dalla provincia occidentale di Herat, dove fino all’inizio dell’estate operava la nostra missione, a Kabul, dove nessuno la conosce. Ma continua a soffrire perché non può più fare il lavoro che ama, a temere per il suo destino e soprattutto per quello della figlia 12enne.
Speravo in un futuro diverso per mia figlia. Lei non ha vissuto la dittatura, sognava di diventare medico. Ora non può uscire di casa
«Credevo che per lei sarebbe stato diverso» si sfoga. «È cresciuta senza conoscere la dittatura e avrei voluto che continuasse così. Avrei voluto che studiasse, diventasse medico come sognava, avesse una vita felice, ora nella migliore delle ipotesi per poter uscire di casa, dovrà sposarsi». Motivo per il quale lei, come quasi tutte le altre, chiede aiuto per andarsene. «Credo di avere finito le lacrime» conferma la segretaria di un istituto parauniversitario che in sede sfoggia tacchi e velo luccicante e, appena esce, si nasconde sotto il burqa. La sua direttrice riceve minacce di morte perché ancora non ha lasciato il suo posto, fa studiare 1.300 tra ragazzi e ragazze, ma ha dovuto separare le classi.
«Non so fino a quando ce la farò, vivo come in un limbo» confessa. «Ho dovuto chiudere il mio profilo Facebook, ho partecipato alle prime manifestazioni femminili in città ma ora hanno vietato anche quelle». È capitato lo stesso anche a Sidiqa Mushtaq, direttrice di un istituto scientifico. «Non è possibile che il mondo accetti e riconosca un Paese dove le donne, gli artisti, chiunque manifesti un pensiero, rischino la vita» dice Sidiqa aggrappata alla sua scrivania. «Cerco di rimanere speranzosa altrimenti sarebbe la morte, una sentenza di morte che pende di nuovo su tutte le donne afghane».